Sono 21 milioni e potrebbero essere decisivi per la Casa Bianca: sono gli asiatici-americani
I manager delle campagne elettorali faticano a intercettarli. Ma sono una delle incognite del 3 novembre e in alcuni Stati saranno ago della bilancia
Il giorno in cui Key Yang entrò in classe nella sua scuola a Ürümqi, in Cina e trovò scritto sulla lavagna i tre ideogrammi che noi translitteriamo in “laobaixìng”, imparò una delle lezioni più importanti della sua vita: «Se non sei abbastanza intelligente per capire che cosa sia meglio per la tua società, non hai il diritto di chiederlo attraverso il voto». Perché “laobaixìng”, tradotto in italiano, significa “gente comune”. «E nel mio Paese d’origine la gente comune non ha il diritto di esprimersi sulle questioni amministrative che riguardano tutti», spiega Key, da Chinatown, Manhattan, New York, dove vive da ormai dieci anni. «Quindi a meno che tu non voglia intraprendere la carriera politica, non sta a te decidere cosa i politici debbano fare per il tuo bene».
A essere cresciuti come lei, americana d’adozione ma cinese di nascita, sono in tanti negli Stati Uniti che si apprestano a votare il prossimo 3 novembre. Attrarre neo-elettori come lei, così disabituati per natura a essere parte di un processo democratico, rappresenta una delle ragioni per cui coinvolgere al voto gli asiatico-americani, di cui la comunità cinese costituisce la fetta più vasta, sia una sfida complicata.
«Non ho mai votato in vita mia, ma se queste sono le regole del gioco qui, ne farò parte anch’io», spiega ancora Key, che è cresciuta nella regione autonoma dello Xinjiang, nella parte nord-orientale della Cina, e nel 2010 si è trasferita a Manhattan. «Sarà la mia prima elezione», dice.
Gli asiatico-americani sono una delle minoranze più vaste, meno rappresentate, più diversificate e più in crescita del Paese. Secondo i dati relativi all’anno 2018 del governo federale, sono circa 21 i milioni di asiatico-americani negli Stati Uniti. E un recente report pubblicato da Pew Research Center mostra come negli ultimi vent’anni il numero di asiatico-americani sia più che raddoppiato, del +139 per cento. Una tendenza valida anche per il numero di neo-cittadini naturalizzati appartenenti a questa comunità che hanno acquisito la possibilità di votare, proprio come Key: dal 2000 al 2018, i nuovi elettori asiatico-americani sono passati da 3,3 a 6,9 milioni.
Spiega a L’Espresso Jerry Vattamala, direttore di un programma di sensibilizzazione al voto per l’Asian American Legal Defense and Education Fund: «Il 40 per cento dei nostri iscritti dice di non avere alcuna affiliazione politica, perché molti non sanno cosa significhi». Di base a New York, la sua organizzazione opera sul territorio nazionale a difesa dei diritti civili per gli asiatico-americani e offre campagne di educazione gratuita, supporto legale e iniziative per la partecipazione. Vattamala, i cui genitori si sono trasferiti a Brooklyn dall’India negli anni ‘70, sottolinea che quando si parla di elettori asiatico-americani non bisogna pensare solo ai cinesi. «All’interno di quei 21 milioni, ci sono persone di diverse etnie: cinesi e giapponesi, indiani e vietnamiti, bangladeshi e coreani, filippini e tailandesi». E la differenza è anche economica: se gruppi come quello indiano sono considerati più benestanti (con un reddito medio di quasi 120 mila dollari l’anno), altri come i bangladeshi (meno di 56 mila dollari) o i nepalesi (poco più di 57 mila dollari), sono meno abbienti. «In realtà questi numeri, che hanno sempre fatto considerare gli asiatico-americani come un esempio virtuoso di migranti, nascondono una realtà fatta anche di diseguaglianze e problemi di rappresentanza», denuncia Vattamala.
E le barriere presenti tra il sistema federale e le comunità sono numerose, a partire dalla comunicazione. «Per rivolgersi alle nostre etnie non basta una lingua sola, come l’inglese o lo spagnolo, perché ognuna ha un codice linguistico diverso: quindi i messaggi devono essere mirati a seconda della comunità che si vuole intercettare». E alla lingua si aggiunge la diversa sensibilità nei confronti del concetto di democrazia: «Chi ha origini bangladeshi, giapponesi o indiane ha un’idea di che cosa significhi recarsi alle urne. Chi proviene dalla Cina, no». Ma allo stesso tempo, «la comunità cinese in America ha una tradizione più profonda di altri gruppi etnici, il che aggiunge delle difficoltà quando si tratta di parlare a questa minoranza al voto».
Ogni comunità ha infatti la sua storia. E chi si è fatto un’idea della propria affiliazione politica ha un’opinione disomogenea. Secondo un recente report di Pew Research Center, i vietnamiti-americani si identificano come repubblicani (42 per cento) più che come democratici (28 per cento), ma gli indiani-americani sono i più progressisti di tutti: 50 per cento dem, mentre solo il 18 per cento si dice repubblicano. Sembra quindi più chiaro il motivo per cui Joe Biden abbia scelto come sua vice Kamala Harris, prima americana di origini indiane a correre per la Casa Bianca nella storia del Paese, la cui mamma Shyamala Gopalan era nata a Chennai, nello Stato di Tamil Nadu in India, prima di trasferirsi negli Usa, dove è morta nel 2009. Chi riuscirà a conquistare la loro preferenza avrà un vantaggio competitivo, soprattutto negli Stati-chiave dove si decideranno le elezioni: Pennsylvania, Michigan, Georgia, Florida e la new-entry Texas, dove vive più di un milione di asiatico-americani, la terza comunità più nutrita d’America.
In un contesto fatto di diversità, c’è però una data che accomuna i destini delle etnie orientali: il 3 ottobre 1965, quando l’allora presidente Lyndon Johnson firmò l’Immigration and Nationality Act, una legge che abolì le linee-guida che regolavano l’immigrazione negli Usa dagli anni ‘20 e che vietava agli asiatico-americani di diventare cittadini Usa. «Fu una svolta, ma il lavoro da fare è ancora tanto: il censimento che si tiene quest’anno sarà decisivo», spiega a L’Espresso Amit Bagga, vicedirettore del censimento 2020 della città di New York. Originario dell’India, è tra i massimi esperti della comunità asiatico-americana della costa est e sa bene che dal censimento dipendono le scelte politiche di distribuzione del denaro pubblico nel Paese.
«Ogni anno, miliardi di dollari vengono elargiti dal governo federale sulla base di ciò che il censimento esprime in termini di rappresentanza», dice Bagga. E il censimento serve anche a ridisegnare i confini dei collegi elettorali. Quindi, se gli asiatico-americani non emergono dal censimento in questo o in quel distretto, di cui magari fanno parte in maggioranza, la possibilità di usufruire delle attenzioni del governo in modo proporzionato alla loro presenza sul territorio può venire meno. «Un esempio giunge da un distretto del Queens a New York, Richmond Hill, dove la maggioranza degli abitanti è di origine indiana, dallo Stato del Punjab: essendoci stata una bassa partecipazione al censimento nel 2010, però, i fondi a loro destinati sono divisi con le altre minoranze in modo diseguale». I dati raccolti fino ad ora, in termini di partecipazione, non sono promettenti: «Su questo, un ruolo lo ha avuto il coronavirus», ammette Bagga.
L’arrivo della pandemia, infatti, ha cambiato la vita quotidiana degli asiatico-americani, che hanno subito molto le conseguenze della crisi economica: la disoccupazione è cresciuta del 450 per cento per loro tra febbraio e giugno, secondo uno studio McKinsey. E ora sono accomunati da un ulteriore aspetto: gli attacchi discriminatori. Attacchi più sottili, come spiega Atid Sachdev, proprietario di un ristorante tailandese a Crown Heights, quartiere di Brooklyn: «Il mio locale ha vissuto un calo di clienti già dai primi di febbraio, quando qui negli Usa l’epidemia non c’era ancora», racconta. «Credo sia legato al fatto che il virus fosse esploso in Cina e molte persone hanno smesso di frequentare ristoranti asiatici».
Secondo un report pubblicato a fine luglio da Pew Research, il 39 per cento degli asiatici ha detto di aver notato un cambiamento nell’atteggiamento degli altri nei loro confronti; il 31 per cento ha riportato di essere stato oggetto di battute razziali in strada; il 26 per cento di essere stato vittime diretta di attacchi fisici.
«A febbraio, ero su un vagone della metropolitana mentre andavo in ufficio: un uomo ha iniziato a fissarmi e mi ha detto ad alta voce, disgustato, “Non voglio stare nello stesso vagone con una cinese come te”. Ho deciso di scendere alla fermata successiva, temendo aggressioni fisiche», racconta a L’Espresso Ying Yen, direttrice del Chinese Cultural Center di New York. «La pandemia però ha reso anche molti cinesi negli Stati Uniti più decisi a denunciare gli episodi di odio nei loro confronti», continua Yen.
A gettare benzina sul fuoco su questo tema è proprio il presidente, Donald Trump, che non esita a definire il covid un “virus cinese”, usando spesso il termine “Kung Flu” nei suoi comizi. È probabile che in futuro lo faccia ancora e le conseguenze rischiano di cadere la testa di tutta la comunità asiatico-americana. «Non posso proprio votare per chi insulta la mia famiglia», dice Key Yang. Secondo numerosi report dei media americani, definire il Covid un virus cinese non starebbe aiutando il presidente a farsi scegliere dagli asiatico-americani in stati-chiave come Michigan, Pennsylvania, Georgia e Nevada, dove parte del mondo imprenditoriale orientale di Las Vegas lo preferì nel 2016 a Hillary Clinton. «Il fatto che il virus sia partito dalla mia terra non significa che sia colpa mia», continua Key, che non ha dubbi sulla sua scelta il 3 novembre. «Sognavo di votare una figura più carismatica per la mia prima volta, ma vedrò di accontentarmi di Joe Biden».