Il francese, come l’ex presidente americano, usa lo schema della destra populista dell’élite come nemico interno che apre le porte a quello esterno, gli immigrati. Ma estremizza ancor più la descrizione catastrofista del presente

Lo sguardo sui fogli, seduto a una scrivania di legno scuro, libroni dalla rilegatura antica alle spalle, di fronte un microfono radiofonico. Immerso nella penombra, il popolare e provocatorio giornalista francese Eric Zemmour il 30 novembre ha presentato via YouTube la sua candidatura alle presidenziali del 2022. La messa in scena dell’annuncio radiofonico con sin troppa evidenza ha voluto richiamare l’appello del 18 giugno 1940 del generale de Gaulle. In metà del tempo dedicato da Zemmour al suo discorso di candidatura, de Gaulle da Londra aveva chiamato i francesi alla resistenza contro il nemico nazional-socialista. In un discorso visionario aveva scorto le possibilità di riscossa e contrapposto un futuro di libertà alla servitù del nazismo. Zemmour ha invece impiegato dieci minuti per illustrare, con parole e immagini, i nuovi nemici della Francia: giornalisti, intellettuali, universitari, politici, sociologi, autorità religiose. La nuova servitù: il politicamente corretto, la società multietnica, il dominio culturale delle élite. La sua riscossa: riportare la Francia a una mitica età dell’oro.

 

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Più che de Gaulle, Zemmour pare la copia cupa e catacombale di Donald Trump. Propone come l’ex presidente americano lo schema della destra populista: l’élite come nemico interno che apre le porte a quello esterno, gli immigrati, e così facendo deteriora nel profondo la grandezza del popolo, spogliato della possibilità di decidere per sé. Un popolo al quale restituirà il proprio destino. «Noi dobbiamo rendere il potere al popolo», recita nel video. «Noi stiamo trasferendo il potere da Washington, DC, per darlo a voi, il popolo», aveva tuonato Trump durante il discorso inaugurale del 2017. Come quest’ultimo narra la propria ascesa alla presidenza non come un mero avvicendamento di governanti, ma come il cammino per la salvezza. Ma estremizza ancor più la descrizione catastrofista del presente attraverso un unisono di parole e sequenze che raffigurano la Francia odierna come un’angosciante distopia realizzata. Visioni di violenze, masse informi, miseria e minacce accompagnate da parole ed espressioni che non lasciano spazio all’immaginazione, ma solo a un profondo senso di oppressione: «il cammino funesto di declino e decadenza» verso il quale le élite hanno condotto i francesi.

 

«Un dispositivo totalitario», ha definito questa cupa rappresentazione, amplificata dall’ossessività con la quale immagini e parole evocano l’orrore presente, lo scrittore francese Christian Salmon (Slate.fr). Totalitario perché «non lascia allo spettatore alcun respiro tra le parole e le immagini, alcun silenzio, alcuna possibilità di dialogo». Ti schiaccia contro il muro della disperazione per farti provare la rabbia verso i nemici del tuo Paese. E Zemmour non ha necessità di spendere molte parole per dare forma all’incubo finale, l’esito dell’esilio in Patria al quale sono costretti i francesi: evoca le élite che hanno celato la realtà del declino e della “sostituzione”, mentre pochi fotogrammi mostrano una preghiera islamica. Il complotto, la teoria della sostituzione, che echeggia nel discorso populista occidentale da diversi anni orna questa fiaba nera.

 

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Ma di fiaba vera e propria non si può parlare, perché come ha osservato sempre Salmon, questo dispositivo totalitario manca di una trama vera e propria, che vada oltre l’asfittico schema di amici, nemici, traditori e popolo tradito. La stessa evocazione reazionaria della Francia di ieri si risolve in un guazzabuglio di momenti e personaggi incoerenti, tanto più incoerenti con la visione di Zemmour, ma che nel loro insieme fissano un tempo passato considerato migliore del presente. Nel loro insieme, in altre parole, sollecitano reazioni emotive, solo reazioni emotive. Come accade nel fenomeno contemporaneo in cui Trump ha eccelso della post-verità: vero, verosimile, falso che si mischiano nell’offerta di emozioni che sostituiscono logica e ragione. Come le immagini scelte dal team di Zemmour per illustrare la decadenza francese. La sparizione della nostra civiltà è illustrata dalla sequenza della demolizione della chiesa di Saint-Jacques d’Abbeville nel 2013, non per furia anticristiana, ma a causa delle precarie condizioni dell’edificio! La furia iconoclasta del politicamente corretto nella sua versione della “cancel culture” è espressa con le immagini di una statua equestre di Napoleone decapitata e sollevata da una gru: ma si tratta dello smontaggio della statua per restauro! (“Le clip de campagne d’Eric Zemmour décortiqué”, Le Monde, 3 dicembre 2021).

 

Zemmour sembra dunque aver condotto il meccanismo populista contemporaneo alla sua estrema conseguenza: la riconfigurazione del reale in un’angosciante distopia per alimentare l’idea che come opzione politica esista unicamente la lotta radicale contro «il mostro freddo e determinato» delle élite. Per una singolare coincidenza, proprio il 30 novembre un altro discorso è stato pronunciato per esaltare quell’universalismo completamento negato nella retorica di Zemmour, che identifica la Francia con la sua potenza e grandezza e mai con quei valori di libertà, eguaglianza e fratellanza scolpiti nella dichiarazione del 1789 e che hanno costantemente nutrito la parola dei presidenti francesi. Si tratta del discorso di Emmanuel Macron in occasione della traslazione della salma di Josephine Baker, americana naturalizzata francese, icona nera del varietà tra gli anni Venti e Sessanta, ma anche attiva nella Resistenza e poi militante per i diritti dei neri, al Pantheon. Una storia, questa, narrata per esaltare l’universalismo dei valori francesi: «La sua tribù arcobaleno è il più bello dei manifesti umanisti. Epifania dell’universalismo al quale lei così tanto credeva», ha ricordato Macron con riferimento ai dodici bambini provenienti dalle più diverse parti del mondo adottati da Baker. Lei, «nera che ha difeso i neri, ma prima di tutto donna che ha difeso il genere umano».

 

Una retorica luminosa che in quell’ultimo giorno di novembre ha fatto apparire in tutta la sua evidenza la contrapposizione tra la speranza del futuro e l’ossessione per il declino che, come ha notato il politologo e internazionalista Benjamin Haddad, tende a sconfinare nell’odio di sé. Il populismo della destra radicale che nella sua (alla fine inevitabile) versione catacombale per esaltare un popolo fittizio divora il popolo reale. E per quanto fragile, artefatta, in contraddizione con la realizzazione concreta di principi troppo alti e le meschinità dei governanti (Macron compreso, che dopo la riconquista talebana dell’Afghanistan sembrò soprattutto preoccuparsi della minaccia di nuove ondate di migrazioni), possa risultare quella retorica, essa infonde fiducia, popola il mondo di donne e uomini, non di stereotipi e mostri. Consente di guardare avanti, senza dover concepire il proprio progresso come una guerra di “Reconquista” (“Reconquête” è appena stato battezzato il movimento di Zemmour) contro gli infedeli nuovi e di sempre.