La favola della "Lady" birmana si è infranta sulle contraddizioni del paese

Da primo febbraio la Birmania è tornata nell’incubo della dittatura militare: l’esercito ha annunciato un colpo di stato e ha proceduto all’arresto di Aung San Suu Kyi e di altri esponenti della Lega nazionale della democrazia (Lnd), il partito che aveva vinto le elezioni svoltesi a novembre. La giunta militare ha dichiarato un anno di stato di emergenza, ha chiuso le comunicazioni con l’esterno, ha spento la rete internet e ha proclamato la legge marziale. Da giorni la popolazione protesta: dapprima dai balconi delle case (un “cacerolazo” di ispirazione latinoamericana) e poi per strada. I militari hanno risposto con cannoni d’acqua e tentativi di disperdere la folla annunciando azioni contro i manifestanti. I nodi storici del Myanmar sono ancora una volta giunti a un punto di non ritorno, stupendo un Occidente che ha spesso letto in chiave binaria quanto accaduto nel “paese delle pagode”. Eppure non pochi avevano saputo scorgere tra le pieghe della storia del paese - e in tempi non sospetti - la complessità birmana.


Secondo i birmani, ad esempio, i libri che George Orwell avrebbe scritto sul paese sarebbero tre: “Giorni in Birmania”, “La fattoria degli animali” e “1984”. Questo sentimento nasce dalla convinzione che vuole lo scrittore ispirato dalla permanenza nel paese tra il 1922 e il 1937, come poliziotto della corona britannica.

 

Nel 1922 Londra concesse alla Birmania una parvenza di democrazia, che Orwell definì «mascherata», tenendo però sotto lo scacco coloniale il paese e chiudendo tutti e due gli occhi sugli abusi di chi gestiva la politica locale. Quando Orwell andò via, nel 1937, la Gran Bretagna separò la Birmania dall’India; da lì iniziò un periodo che porterà il paese all’indipendenza e poi, nel 1962, l’avvio di un regime militare che era parso tramontare definitivamente nel 2015, con le elezioni che avevano sancito la vittoria della Lnd e della sua rappresentante, Aung San Suu Kyi. Sembrava così compiersi un processo che l’Occidente aveva seguito con straordinaria attenzione: dopo aver inserito la Birmania nel cosiddetto «asse del male», George W. Bush sanzionò il paese in modo letale. A pagare furono soprattutto i cittadini, persi tra miseria, fame, dittatura e scontri etnici.

 

Poi lo stesso Occidente si accorse dell’esistenza di Aung San Suu Kyi - figlia di un eroe nazionale perché protagonista dell’indipendenza ottenuta nel 1948 -, 15 anni di arresti e trattamenti degradanti da parte dei militari, vincitrice del Nobel nel 1991 e poi alla testa della transizione democratica e dell’ingresso del paese all’interno dei meccanismi capitalistici mano nella mano con gli Usa.

 

Nel 2012, Barack Obama fu il primo presidente americano a recarsi a Yangon per celebrare la svolta democratica. Sembrava completarsi così una favola molto cara all’Occidente: da regime a nuova e fiorente democrazia, da paese chiuso a uno aperto ai flussi del mercato globale. Purtroppo però, le cose non erano così semplici. E il colpo di stato annunciato dai militari ha reso evidente una situazione complicata, drammatica e di difficile soluzione.


Nel libro “Sulle tracce di George Orwell in Birmania (Add editore) Emma Larkin ricorda come lo scrittore detestasse «il sistema» birmano, «un contesto politico in cui anche i buoni finivano per compiere azioni riprovevoli». Una constatazione che ha finito per pesare anche sulla «Lady» (soprannome che deriva dal titolo di un documentario di Luc Besson del 2011 sulla sua vita) che, giunta al potere, si è trovata a dover gestire non tanto una favola quanto le contraddizioni del paese. A partire dalla sua stessa posizione: sposata a un cittadino britannico, per la legge birmana non può avere cariche ufficiali. Ma soprattutto la sua vittoria non ha permesso di arginare i militari, dato che l’esercito controlla alcuni dicasteri chiave e ha garantito un numero di seggi in parlamento che permette il diritto di veto su qualsiasi prospettiva di riforma costituzionale. Né è riuscita a risolvere il dramma vissuto dai rohingya, musulmani che nessuno vuole e per i quali la Lady non ha mai speso una parola. Risultato: da eroina è diventata carnefice e la Birmania è tornata tra i “cattivi”.

 

Thant Myint-U - storico del paese e nipote di U Thant, ex segretario generale dell’Onu dal 1961 al 1971 - nel suo libro (“L’altra storia della Birmania, una distopia del XXI secolo”, Add) ha descritto così questo nuovo cambiamento di percezione occidentale del paese: «Nel 2018, l’Arakan Rohingya Salvation Army, aveva attaccato decine di posti di blocco nell’estremo ovest, e ne era seguita una violenta risposta da parte dell’esercito birmano. In seguito agli scontri, centinaia di migliaia di uomini, donne e bambini, quasi tutti appartenenti alla minoranza musulmana dei rohingya, scappavano nel vicino Bangladesh, raccontando storie orribili di stupri e massacri. La Birmania si trovava adesso sul banco degli imputati, accusata di genocidio e crimini contro l’umanità». E la Lady si è ritrovata sola, come la popolazione birmana che ora protesta contro il golpe.

 

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