La resistenza di Matiuallah Wesa sotto il regime: «La conoscenza è l’unica arma possibile. E all’Italia dico: sostenete il nostro popolo e il sapere»

«Se mi ammazzeranno non importa. È una responsabilità l’educazione delle donne e dei bambini. È un dovere». Responsabilità. Matiullah Wesa 29 anni ripete questa parola più volte al telefono. «Lo faccio per senso di responsabilità», insiste. Nato e cresciuto nel distretto di Maruf, provincia di Kandahar attraversa l’Afghanistan per riaprire le scuole e costruirne di nuove, insegnare ai bambini ma soprattutto alle bambine («Sono il futuro»). Al momento si trova nella provincia di Kunar situata nella parte sud-orientale dell'Afghanistan al confine con il Pakistan, qui, dove i talebani addestrano i bambini-soldato, continua la sua campagna per PenPath, l’associazione che ha fondato nel 2009 per promuovere l’educazione di donne e bambini.

La voce è ferma e non si incrina neanche quando racconta della sua infanzia: all’età di otto anni un gruppo di talebani armati entrò nella sua scuola che non era altro che un ammasso di tende messo in piedi da suo padre, ricorda la pistola puntata contro l’insegnante e poi le fiamme. I talebani avevano dato fuoco a ogni cosa. Anche alla sua casa e all’attività di famiglia che consisteva nella produzione di frutta secca. La sua ong è il risultato di una staffetta con passaggio di testimone, destinata ad affrontare le stesse sfide di suo padre e di suo nonno che hanno fatto campagna per l'istruzione sotto il regime dei talebani alla fine del 1990. In un incrocio di sguardi che posano sul futuro, Wesa attraversa il paese per salvare le donne con l’unica arma possibile: la conoscenza.

 

Matiullah Wesa, si trova al sicuro? Cosa sta facendo a Kunar?
«Continuiamo la nostra campagna con i capi delle tribù e i capi religiosi. La preoccupazione per il futuro dell’Afghanistan è totale in questo momento, ma noi siamo qui per infondere speranza. Parliamo di scuole, università. La speranza è tutto quello che abbiamo si può infondere alle ragazze e alle donne attraverso la conoscenza. Siamo a lavoro per salvare le nuove generazioni. In questo momento stiamo distribuendo dizionari, libri, libri per bambini, quaderni». 

E i talebani ve lo consentono? Qual è la situazione?
«Con i miei volontari siamo arrivati al check-point. Ci hanno chiesto chi fossimo e cosa dovessimo fare. Hanno controllato i nostri documenti, quello che portavamo con noi e ci hanno detto che non c’erano problemi. Ci hanno lasciato andare».  

E si fida?
«Noi dobbiamo lavorare e continuare la nostra missione. È nostra responsabilità. È un dovere di donne e uomini. Siamo consapevoli delle difficoltà e se qualcosa dovesse andare storto lo segnaleremo sui social, lo condivideremo sulle testate internazionali che vorranno aiutarci. Internet ci da una mano. Non resteremo in silenzio. Il mio compito è preciso: negoziare con gli studiosi religiosi e i leader delle tribù per il diritto all’educazione di questi bambini. È nostro dovere, capisce? Sa ci sono dei momenti in cui bisogna dare speranza al futuro, questo è il nostro Paese, non possiamo abbandonarlo». 

Con la sua ONG “PenPath” cosa avete ottenuto fino ad oggi e quali sono i prossimi obiettivi?
«Ci sono 39 biblioteche, 46 nuove scuole e abbiamo riaperto 100 scuole chiuse. Abbiamo esteso il diritto all’istruzioni a 54 mila bambine e bambini nei posti più remoti dell’Afghanistan. E poi abbiamo creato un servizio di libreria mobile. Funziona così: dei volontari salgono sulle loro motociclette attraversano le terre devastate dalla guerra e consegnano i libri ai bambini.  Vogliamo cambiare la nostra società, le nostre persone. Chiedere pace, educazione, diritti umani. È tutto qui. Vogliamo educazione e scuole. Dal 2017 a oggi siamo riusciti a ottenere il sostengo dalle tribù e dai leader religiosi. I nostri volontari continuano ad andare porta a porta nei villaggi dimenticati per introdurre soprattutto le giovani donne allo studio. E ho scoperto che c’è tantissima voglia di conoscenza, abbiamo circa duecento volontari e tantissime richieste di persone che vogliono unirsi per sollevare il nostro paese».  

Ha parlato dell’educazione delle donne. Lei insegna a tantissime ragazze.  Il portavoce dei talebani Suhail Shaheen ha dichiarato a Sky News che le donne afghane potranno accedere all'istruzione, compresa l'università. 
«Noi monitoriamo la situazione. Siamo in contatto con moltissime donne e al primo problema renderemo tutto pubblico. Facciamo un lavoro di vigilanza. Non resteremo in silenzio». 

Non ha paura? Non teme ripercussioni? 
«Io non appartengo a nessuno. Solo alla gente di Kabul che vuole l’educazione. Non è facile lavorare qui. So che chiedere l’educazione per le ragazze porta moltissimi problemi. Di recente ho ricevuto un messaggio: «Fermati, perché se non ti fermi ti uccideranno». Sa cosa? Non importa. Forse mi uccideranno ma avrò lottato per il futuro. E quindi per risponderle: no, non mi preoccupa. Voglio l’educazione, sono responsabile per me e il mio paese. Non voglio lasciare l’Afghanistan, non voglio scappare. Non mi preoccupa la mia vita, mi preoccupa il mio Paese. Ho fatto lezioni a tre chilometri dalle zone di guerra e dagli scontri. La mia organizzazione era a Kabul quando sono arrivati i talebani. Sentivo le bombe, le urla ma non mi sono fermato. Non possiamo fermarci. La nostra generazione può cambiare questo Paese e fermare queste violenze». 

E la comunità internazionale può fare qualcosa? 
«Sostenerci. Non sostenete le organizzazioni violente, sostenete l’educazione. Sostenete le nostre scuole, le nostre università. Noi non chiediamo pistole, bombe, armi ma libri, penne, quaderni, università, tende o edifici. Ho un messaggio per l’Italia: sostenete il nostro popolo e il sapere. La violenza terminerà solo così. La conoscenza è potere. L’unico modo per uscire da qui è restare e studiare».