Scenari
La pace tra Russia e Ucraina è molto difficile, ma possibile
Da un lato la minaccia atomica e i rovesci subiti, dall’altro l’avanzata di Kiev e gli stanziamenti Usa. Oltre i proclami c’è però uno spiraglio negoziale. In nome degli affari
Succede, talvolta, che l’acme di una crisi bellica corrisponda contro ogni evidenza all’avvio di trattative di pace. Le parole e i fatti sono andati talmente oltre che la prossima escalation sarebbe solo l’uso dell’arma nucleare. Putin l’ha evocata, sfumando e ritraendosi prima di una dichiarazione esplicita, e restringendo la possibilità dell’irreparabile ai casi di un attacco altrui o di una «minaccia esistenziale» al suo Paese. La Nato ha risposto che, dovesse lo zar ricorrere all’atomica, «tutta la Russia pagherà».
Che lo zar di Mosca contempli la catastrofe è il segno della violazione di un tabù che avremmo voluto essere sempiterno. E non consola la spiegazione che si tratterebbe di una bomba nucleare tattica, di ridotte dimensione sì, ma dagli effetti più devastanti dell’unico precedente di Hiroshima e Nagasaki. Lo farebbe, Putin, se, pescando dalla sua biografia, si dovesse trovare nelle condizioni del topo. Ama infatti narrare che quando era ragazzo in una strada di San Pietroburgo si trovò davanti a un topo, lo mise nell’angolo, cercò di afferrarlo e l’animale gli morse la mano. La morale: mai lasciare un topo senza una via di fuga. Passati gli anni e capovoltisi i ruoli la domanda è: crede Putin di essere nella situazione di quel topo?
La guerra sta andando male. Voleva prendersi tutta l’Ucraina nel volgere di pochi giorni, non ce l’ha fatta mal misurando le capacità del suo esercito e la reazione coraggiosa di un popolo che voleva «liberare dai nazisti». Ha dovuto registrare la fuga in massa di oltre duecentomila renitenti alla leva dopo aver proclamato la mobilitazione parziale. Il consenso interno, comunque ancora relativamente alto, sta calando. Affiorano critiche anche sui media di regime. È attorniato da falchi che gli consiglierebbero di alzare il tiro, e abbiamo visto cosa significa. Può temere di essere rovesciato dai suoi gerarchi o dai militari? È quello che almeno in Occidente piace pensare partendo dal presupposto peraltro indimostrato che «dopo» chiunque sarebbe meglio di lui. Le ipotesi si accavallano e nelle ipotesi ci si può perdere: in realtà cosa succeda dentro e fuori le mura del Cremlino è un mistero, essendo la cittadella del potere moscovita più impenetrabile dei tempi di Breznev quando i cremlinologi potevano almeno decrittare il «chi sale chi scende» da impercettibili segnali che comunque filtravano. Infine ha dovuto registrare a Samarcanda i malumori circa la sua condotta da alleati, o almeno non ostili, come la Cina e l’India.
Eppure Putin una via di fuga ha creduto di potersela aprire con il referendum farsa nelle quattro regioni di Donetsk, Luhansk, Zaporizhzhia e Kherson. Dopo l’annessione ratificata in pompa magna, si è detto pronto a tornare a un tavolo negoziale nel caso Kiev fosse d’accordo per un cessate il fuoco. Avrebbe potuto raccontare alla propria opinione pubblica la storiella della vittoria e degli obiettivi raggiunti perché è riuscito a riportare nella madre patria i fratelli separati che abitano nelle aree conquistate. La mossa gli sarebbe riuscita se non fosse caduta nel momento di massima efficienza delle truppe ucraine che stanno riguadagnando città e posizioni approfittando dello sbandamento e dell’inefficienza di un esercito di tutta evidenza inadeguato al disegno imperialista del suo duce. Volodymyr Zelensky ha firmato un decreto che sancisce «l’impossibilità di negoziare con il presidente della Federazione russa Vladimir Putin». Una capriola della storia impronosticabile a febbraio, fattasi via via più concreta dall’estate in poi e ora si avvicina l’inverno, stagione difficile per la conduzione di una guerra che è anche di trincea. Zelensky si sente in una posizione di forza e ne vuole approfittare ma è con il nemico che si tratta. Può essere sia convinto che la stella dello zar sia al tramonto. O che il peso dei troppi morti lo obblighi alla rivincita, nonostante debba mettere in conto altri lutti.
Se l’Ucraina ha resistito e passa al contrattacco è stato per l’appoggio in consiglieri militari e materiale bellico forniti dall’Occidente, in primis gli Stati Uniti, a ruota gran parte dell’Europa. Il Vecchio Continente paga quella che è anche la difesa dei propri valori con una crisi economica preoccupante, un’inflazione che non si vedeva dagli Anni Ottanta, le bollette di gas e luce a livelli siderali. E si chiede quale sia il prezzo finale della democrazia e dei diritti. Il che significa, tradotto: fino a che punto siamo disposti a seguire il desiderio di Zelensky di riprendersi tutto il territorio ucraino, Crimea compresa? E ancora: è l’armata ucraina in grado di sostenere da sola tale sforzo senza un ausilio militare diretto che significherebbe ufficializzare lo scontro Nato-Russia con conseguente (probabile) uso dell’atomica perché Putin sentirebbe la «minaccia esistenziale»?
È proprio lo scenario apocalittico ad aprire la strada per una chance negoziale. Strada assai stretta per approdare non proprio a una pace ma almeno a una tregua. Zelensky non accetterà mai l’amputazione di un sesto del suo Paese. Putin non rinuncerà mai ai territori annessi. Eppure il linguaggio diplomatico si presta a nuance, sottigliezze, eufemismi, dilazioni. E nonostante prese di posizione accigliate fanno capolino ipotesi di soluzione delle cancellerie che non sono poi così dissimili da quelle evocate dal chiacchierato miliardario sudafricano-canadese Elon Musk. Il cui piano lanciato via Twitter e da molti deriso prevede: l’Ucraina neutrale (niente ingresso nella Nato); la Crimea parte della Russia come lo è di fatto dal 2014 e come lo è stata dal 1783 al 1954 quando Krusciov la cedette all’Ucraina; un referendum da rifare nelle regioni annesse dai russi sotto la supervisione delle Nazioni Unite (ma servirebbero garanzie ben più solide per assicurare una consultazione equa sotto il tallone degli attuali occupanti). In pratica un congelamento della situazione di fatto in attesa di una definizione di là nel tempo per abbassare la temperatura: è poco, ma è sempre meglio della carneficina quotidiana. Per quanto arrivi da un personaggio bizzarro, è una versione aggiornata del realismo cinico geopolitico. Non è strano che se ne faccia portavoce un imprenditore multimiliardario. Il business, a esclusione del complesso militar-industriale, ha in odio le guerre perché rallentano gli affari. Una preoccupazione condivisa dal regime cinese del capitalismo di Stato che vede minacciata la sua crescita.
Resta da capire la prossima mossa degli Stati Uniti di Joe Biden, sinora generosi nel rifornire l’arsenale ucraino. Hanno stanziato un altro miliardo di dollari poco più di una settimana fa in previsione di un conflitto lungo. Per eterogenesi dei fini potrebbe essere un tassello della costruzione di un equilibrio di forze utile alle trattative. È sempre più chiaro che una soluzione negoziale, stante l’ostinazione dell’aggressore e le buone ragioni dell’aggredito, passa da un accordo tra le due superpotenze America e Cina. In gioco infatti non ci sono solo gli oblast ucraini ma gli equilibri strategici di un intero pianeta.