Xi Jinping non ha intenzione di mediare tra Mosca e Kiev o di intervenire diplomaticamente. E oggi sta puntando la sua sfera di influenza solo dove ritiene più utile: in Africa

Ad aprile è stato Joseph Nye, accademico americano e padre del concetto contemporaneo di “soft power”, a esaminare la posizione cinese rispetto alla guerra in Ucraina. Nye ha provato ad analizzare le possibilità che Pechino avrebbe avuto di “influenzare” - scopo principale del soft power - anche il nostro mondo nonostante la sua posizione scomoda (alleato “senza limiti” della Russia e partner commerciale di rilievo dell’Ucraina).

 

Nye si è chiesto, in un articolo pubblicato su Project Syndicate (un sito che ospita interventi di accademici di rilievo) se un’azione risoluta nel tentativo di mettere intorno a un tavolo Zelensky e Putin da parte del leader di Pechino Xi Jinping, avrebbe potuto significare assistere al sorgere di una Cina nuova rispetto al passato. Una Cina che dopo molti anni passati da spettatrice delle crisi internazionali, avrebbe finalmente provato ad avere un ruolo da “grande potenza” come afferma di essere. A questo proposito l’accademico americano ha ricordato il cosiddetto «momento Teddy Roosevelt», riferendosi a quando il ventiseiesimo presidente americano intervenne per mediare «dopo la brutale guerra tra Russia e Giappone nel 1905». In questo modo, secondo Nye, Roosevelt ottenne «un compromesso aumentando così l’influenza globale dell’America». Turchia, Israele e Francia hanno provato a cercare un compromesso tra Ucraina e Russia senza riuscirci perché «non hanno la stessa influenza su Putin che potrebbe avere Xi Jinping. La domanda - secondo Nye - è se Xi Jinping ha l’immaginazione e il coraggio di usare questa influenza».

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Si tratta di una possibilità, per altro, di cui si è parlato molto fin dall’inizio della guerra, ma che in realtà Pechino non sembra aver mai preso davvero in considerazione e non solo per la mancanza - probabile - di immaginazione di Xi. La Cina ha deciso di non mediare in modo cosciente e proprio per questioni legate al soft power. E perché intende il soft power e più in generale la sua proiezione sull’opinione pubblica dei paesi in modo diverso dal nostro. L’auspicio di Nye, così come quelli di tanti altri osservatori, si riduce così a un wishful thinking che non tiene conto delle attuali esigenze e obiettivi cinesi. Per molti osservatori occidentali questo tentativo mancato sarebbe infatti un segnale di debolezza della politica estera cinese e una occasione persa per mostrarsi “responsabile” agli occhi dell’Occidente, proprio come Pechino da tempo si descrive.

 

I motivi, in effetti, non mancano: secondo Zhang Lijia, scrittrice cinese e opinionista su media internazionali, Pechino avrebbe dovuto porsi come mediatrice e potrebbero ancora farlo, prima di tutto per una questione “difensiva”, ovvero per rimediare alle difficoltà registrate dal suo soft power in Occidente. Sul South China Morning Post, influente quotidiano di Hong Kong, Zhang Lijia ha messo in fila i fallimenti dei tentativi cinesi di influenzare l’opinione pubblica occidentale prima dello scoppio della guerra: «La scarsa immagine della Cina è stata imputata alla sua diplomazia sempre più aggressiva, alla gestione del Covid-19, alla repressione della minoranza etnica degli uiguri nello Xinjiang e allo strangolamento delle libertà di Hong Kong. Un sondaggio Pew su 17 paesi sviluppati ha rilevato che l’immagine della Cina è sostanzialmente negativa presso quei paesi».

 

In realtà la decisione della leadership cinese di tenersi alla larga dalla guerra (salvo rispettare, per quanto criticate, le sanzioni contro la Russia in modo da non incorrere in sanzioni secondarie che costituirebbero un grave problema per la Cina) sembra essere motivata proprio da questioni legate al soft power. Per come lo intende Pechino però.

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Basterebbe infatti riportare i contorni del significato di “soft power” per il suo creatore Joseph Nye, per sottolineare le differenze, tante, che esistono tra il concetto elaborato in Occidente e come è stato “adattato” rielaborato, “sinizzato” dagli intellettuali e politici cinesi. Per Nye gli strumenti a disposizione del soft power sono cultura, valori e politica estera e sono nettamente distinti da altri strumenti più coercitivi (economici e militari) che rientrano nel concetto di “hard power”. Per la Cina questa divisione è molto meno netta. Basandosi sull’esempio degli Stati Uniti, gli intellettuali cinesi e la dirigenza del Pcc ritengono infatti che siano l’influenza economica o la deterrenza militare a determinare la possibilità che il soft power, dopo, possa essere rilevante. Senza il piano Marshall, si chiedono gli intellettuali cinesi, ci sarebbe stato il soft power americano come lo conoscono oggi gli europei?

 

Nel concetto di soft power inoltre i cinesi pongono la “cultura”, un insieme di valori molto ampio che per Pechino riguarda anche ideologia, politica e scelte economiche. Secondo Maria Repnikova, una delle più importanti esperte di soft power e opinione pubblica in Cina (di recente ha pubblicato per Cambridge University “Chinese soft power”), il Pcc concepirebbe inoltre il soft power come un meccanismo capace di influenzare l’esterno, così come di confermare “la linea” all’interno del paese, riscontrando tra gli strumenti utilizzati da Pechino anche una forma molto spettacolare di diplomazia. Quella, ad esempio, usata dalla Cina in Africa mentre sull’Ucraina piovevano le bombe russe: promesse di aiuti economici in caso di problemi legati all’aumento dei prezzi degli alimenti, come conseguenza di quanto sta accadendo in Europa, e conferma di investimenti e progetti “win win”. Il messaggio è anche interno: è quel mondo che ora ci interessa. Se ci aggiungiamo l’attività dei media di Stato tesa a spiegare la guerra in Ucraina come una risposta a una sorta di aggressione della Nato alla Russia, il messaggio è ancora più chiaro.

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Non siamo dunque di fronte a una situazione nella quale la Cina sta perdendo un’opportunità: dal punto di vista della leadership del Pcc la Cina sta esercitando il suo soft power semplicemente dove ritiene sia più utile in questo momento, riferendosi all’Ucraina solo in termini di aiuti umanitari (un altro strumento del soft power), come ribadito da Xi Jinping nella recente videoconferenza con il cancelliere tedesco Scholz. A Scholz, tra l’altro, Xi ha anche ripetuto quanto ripete da tempo a ogni leader europeo: o l’Europa si rende autonoma e «i vantaggi reciproci saranno più delle nostre differenze», ha detto Xi Jinping, oppure Pechino per capire cosa fa l’Europa chiamerà direttamente Biden o chi sarà al suo posto dopo il 2024. Ed ecco l’altalena tra soft power e hard power: il tentativo di ricordare all’Ue i legami economici con la Cina, attualmente più importanti secondo Xi Jinping di una mediazione impossibile tra Kiev e Mosca, nella quale l’Europa non avrebbe alcun ruolo e alcuna capacità di sostenere Pechino contro Washington.