In un piccolo cimitero di Samos ombreggiato dai pini, alcune tombe non hanno nome, né foto. Solo un numero dipinto su un sasso e un fiore di plastica deposto sulla terra testimoniano che li è sepolta una persona di cui si ignora l’identità, morta affogata nel tentativo di raggiungere l’isola greca. Tra le pietre, numerate fino al 35, una lapide mostra il volto di Yahya, bambino di 5 anni annegato nel novembre di due anni fa al largo di Samos. Il padre, sopravvissuto allo stesso naufragio, lo scorso maggio è stato assolto dall’accusa di avere messo a repentaglio la vita del figlio, portandolo con sé in un viaggio pericoloso che dall’Afghanistan doveva condurlo in Europa. Se condannato, avrebbe scontato fino a dieci anni di carcere.
Dimitris Choulis, avvocato cresciuto nell’isola, incaricato della difesa, ricorda di quando il padre era stato condotto in manette nella camera mortuaria dell’ospedale per riconoscere il corpo del figlio. «Eravamo convinti che sarebbe stato assolto: ma chi lo compenserà per ciò che ha dovuto subire? Così viene fatto passare il messaggio che anche se riuscirai a raggiungere la Grecia, verrai incriminato». Negli ultimi mesi, sulla scrivania di Choulis si sono accumulati i documenti relativi a casi di migranti accusati di traffico di esseri umani, poiché avevano impugnato il timone della barca su cui viaggiavano. Secondo l’ong Bordeline Europe, quasi duemila persone sono detenute nelle carceri greche a seguito di questo tipo di accusa.
«Parliamo di richiedenti asilo che cercano di governare la barca quando viene lasciata alla deriva. Da tempo Samos è diventata la fortezza d’Europa: non solo attraverso l’incriminazione di chi riesce a fare domanda d’asilo, ma ancora prima con i respingimenti illegali in mare».
Nel porto dell’isola, quando i caicchi rientrati dalla pesca dondolano ormeggiati, le navi di Frontex e della Guardia costiera sono le uniche a increspare il filo dell’acqua. Sui muri di alcuni edifici affacciati sul mare, scritte in bomboletta spray mettono in chiare lettere una parola che nell’isola non si pronuncia facilmente: «Pushback». Basta con i respingimenti, si legge sugli abitati.
In base a una pratica denunciata da ong come Amnesty international e Human rights watch, ma sempre negata dal governo greco, i migranti sbarcati nelle isole vengono arrestati da uomini con il volto coperto, picchiati, privati di documenti e cellulari e imbarcati a forza sulle navi della Guardia costiera greca. Una volta al confine con le acque turche, vengono abbandonati su gommoni di salvataggio.
L’Alto commissario delle Nazioni unite per i rifugiati Filippo Grandi si è detto allarmato per «le testimonianze ricorrenti e consistenti» che provengono da questa zona di confine. Dall’inizio del 2020 l’Unhcr ha registrato 540 segnalazioni di respingimenti, illegali perché secondo il diritto internazionale nessuno può essere rimpatriato prima che abbia avuto la possibilità di fare domanda d’asilo.
Nella costa sud-orientale di Samos, da cui si intravede la Turchia, le spiagge rocciose lasciano presto il posto alla boscaglia che si inerpica a perdita d’occhio. Un tempo, dopo lo sbarco, i migranti venivano scortati dalle autorità nel centro di identificazione, «mentre ora che i respingimenti sono sistematici, i richiedenti asilo si nascondono per giorni tra il bosco e gli scogli, e da lì contattano attivisti o amici nell’hotspot per documentare la loro presenza ed essere accompagnati al centro di registrazione», spiega Choulis.
«In questi casi ribadiamo ai migranti che le autorità sono le prime a dovere essere allertate, e comunichiamo per loro la posizione alla Guardia costiera». Cosa avviene dopo, spesso nessuno è in grado di dirlo: «Talvolta le autorità affermano di essersi presentate sul posto e di non avere trovato nessuno. Altre volte gli operatori umanitari soccorrono migranti che testimoniano di essere sbarcati con molte più persone, di cui sull’isola, però, non c’è traccia», commenta l’avvocato.
Lo scorso 26 febbraio, la giornata era stata alquanto movimentata: in base alle segnalazioni, una barca con a bordo 12 richiedenti asilo palestinesi provenienti da Gaza era sbarcata sulla costa nord di Samos. I migranti si erano fotografati per attestare la loro presenza: le donne con in braccio tre bambini piccoli di fronte a una chiesetta dipinta in stile cicladico, bianca e blu, e tutto il gruppo di lato ai cartelli stradali che indicavano note località dell’isola. A ricevere le richieste d’aiuto, dall’altra parte dell’Europa, c’era Tommy Olsen.
Fondatore della ong norvegese Aegean boat report, Olsen, come da prassi, aveva pubblicato sul sito dell’associazione le foto dei migranti, chiedendo ad attivisti e autorità locali di prestare soccorso. Dopo giorni di attesa, quando i contatti si erano ormai interrotti, nessun nuovo arrivo risultava registrato nell’hotspot di Samos. Nello stesso frangente, la Guardia costiera turca affermava di avere recuperato 12 migranti su una remota scogliera del territorio turco: alcuni volti nelle foto pubblicate dalle autorità, come denunciato dalla ong di Olsen, combaciano con quelli delle persone fotografate a Samos.
Per Aegean boat report, si tratta dell’ennesimo respingimento illegale avvenuto nell’isola. «La Guardia costiera turca di per sé non è una fonte affidabile», chiarisce Olsen: «Il mio lavoro si basa sulle foto inviate dai migranti che sono geolocalizzate a Samos: poi sui video e sulle testimonianze raccolte grazie al coordinamento con le associazioni per i diritti umani presenti sul posto».
Ma per il ministro greco dell’Immigrazione, Notis Mitarachis, si tratta di accuse infondate: «Propaganda della Turchia», il Paese che, ha ricordato più volte, non si fa scrupoli nel ricattare l’Europa attraverso i profughi.
A inizio anno lo stesso Mitarachis aveva conferito a Fabrice Leggeri, direttore di Frontex, l’Agenzia deputata al controllo delle frontiere europee, un premio al merito per avere ridotto drasticamente il numero degli sbarchi in Grecia. Nell’aprile scorso, tuttavia, Leggeri ha presentato le proprie dimissioni. Decisiva l’indagine dell’Olaf, l’Ufficio europeo antifrode, su presunte irregolarità di condotta, il cui rapporto deve ancora essere pubblicato. Nei giorni precedenti alle dimissioni, un’inchiesta di Le Monde e Lighthouse reports accusava Frontex di avere coperto i rimpatri illegali dei migranti registrandoli come semplici «operazioni di prevenzione delle partenze eseguite in acque turche» e non in Grecia, come invece documentano le testimonianze.
Nel frattempo, i trafficanti di esseri umani riorganizzano le proprie rotte. Secondo un rapporto della Commissione europea, gli sbarchi in Italia dei migranti partiti dalla Turchia sono triplicati l’anno scorso, passando da 2mila a 6mila. Un tempo, i richiedenti asilo avrebbero pagato circa mille euro per essere portati a Samos dai trafficanti. Ora invece, per evitare di essere respinti, in molti versano fino a 9mila euro per attraversare gli arcipelaghi greci e sbarcare in Italia. «Così gonfiamo le tasche delle bande criminali con più soldi, e rendiamo il viaggio molto più pericoloso», spiega Choulis.
Ma anche per chi riesce a farsi registrare negli hotspot greci, l’odissea è lontana dal concludersi. Nella piana dell’entroterra dove è situato il campo, inaugurato nel settembre scorso con il finanziamento dell’Unione europea, si sente solo il rumore del vento e gli annunci in più lingue diffusi dagli altoparlanti al suo interno. Qui la maggior parte degli attuali 400 residenti è somala, afghana, siriana. In tanti hanno aspettato due anni per conoscere l’esito della domanda d’asilo e ora la richiesta è stata rigettata. Dall’anno scorso, infatti, il sistema d’asilo greco considera la Turchia un «posto sicuro» dove chiedere protezione per i migranti in arrivo da Siria, Afghanistan, Somalia, Pakistan e Bangladesh che, complessivamente, rappresentano il 65 per cento dei richiedenti asilo in Grecia. Se i migranti di queste nazionalità non sono in grado di dimostrare che la loro vita è in pericolo in Turchia, la domanda non viene esaminata.
All’ombra delle recinzioni con il filo spinato che circondano l’hotspot, Ahmed si presenta come il portavoce della comunità siriana. Sul suo cellulare scorrono le notizie di alcune ong impegnate a documentare la condizione dei rifugiati in Turchia: «Nei mesi scorsi a Smirne hanno dato fuoco a tre ragazzi siriani, in un attentato razzista. Non c’è futuro per noi in quel Paese. Vogliamo costruirne uno nuovo in Europa e non rimanere seppelliti qui in eterna attesa».
Nel piccolo cimitero di Samos le visite sono rare: solo i gatti randagi ciondolano tra le tombe. Choulis ricorda che il giorno prima del funerale del bambino, alcuni attivisti avevano raccolto un po’ di soldi per apporre una lapide. «Non che servisse a qualcosa, ma almeno potevamo scrivervi sopra di chi è la colpa». Sulla pietra la scritta recita: «Non lo ha ucciso il mare, né il vento: lo hanno ucciso la paura e le scelte di chi fa politica».