La frontiera greca
Le prigioni dei migranti nel cuore di Lesbo, diventata il limbo d’Europa
“Mai più”, giurò la Ue dopo il rogo della collina lager di Moira. E invece un anno dopo non è cambiato niente: profughi in attesa, rimpatri illegali. E carcere
Sul muro che circonda la collina di Moria campeggiano ancora due scritte: Welcome to Europe e Human rights graveyard (Benvenuti in Europa, Cimitero dei diritti umani).
È la sintesi, spietata, di cosa è stato per migliaia di persone vivere nell’hotspot di Moria, Lesbo, fino all’otto settembre dello scorso anno quando un incendio ha distrutto tutto.
Oggi il terreno intorno alla struttura è deserto, non ci sono più tende, né le baracche costruite con pezzi di alberi e plastica, sono vuoti i container, la guardiola, la torretta che sovrasta il cancello, così come l’area che era stata adibita a prigione per tutti i richiedenti asilo la cui richiesta era stata respinta e perciò destinati al rimpatrio.
Restano i segni del rogo, le coperte bruciate, pezzi di sacchi a pelo, bicchieri e stoviglie, oggetti personali abbandonati da qualcuno corso via in fuga dalle fiamme.
Non le prime a Moria, di certo le ultime.
A circondare il cancello d’entrata restano la rete metallica e il filo spinato. Segno fisico della soglia, di un dentro e un fuori che, a Moria, hanno velocemente cessato di esistere.
Pensato per 680 persone, è arrivato a contenerne fino a 4 mila a cui, negli anni, si sono aggiunte altre migliaia di persone che vivevano in accampamenti informali, nei campi e nei boschi che circondano l’hotspot. La struttura di Moria, che un tempo era una base militare, è diventata un centro di identificazione e registrazione per migranti dopo l’ondata migratoria del 2015-2016, quando un milione di persone dirette in Europa partirono dalle coste turche diretti sulle isole greche.
La strategia dell’Europa fu emergenziale: controllare i confini meridionali del continente e, se non bloccare gli arrivi, almeno disincentivarli. Così, sulle cinque isole greche dove sbarcavano i migranti vennero costruiti degli hotspot pensati per ospitare i richiedenti asilo solo il tempo necessario a ricevere le loro richieste di protezione umanitaria e elaborare risposte veloci. Se accettate, sarebbero stati ricollocati in un Paese europeo, se respinte riportati in Turchia o nei Paesi d’origine. Per agevolare il controllo e il pattugliamento delle coste - dunque dei confini - l’Europa all’inizio del 2016 strinse un accordo con Ankara, tuttora in vigore: chiunque arrivi in Grecia dalla Turchia senza avere chiari requisiti di asilo deve essere espulso, riportato indietro o deportato nei Paesi di origine.
Il patto da allora è costato ai contribuenti europei sei miliardi di euro.
Un costo economico, certo, ma anche un costo umano. Perché se è vero che gli sbarchi si sono drasticamente ridotti, è altrettanto vero che lo hanno fatto al prezzo della normalizzazione dei respingimenti.
Per gli altri, per le persone già arrivate sulle isole e per le sparute centinaia che hanno continuato ad arrivare, invece, si è aperto un limbo amministrativo che per alcuni dura da anni.
Così, nella lentezza dei processi legali e negli arretrati nelle domande d’asilo, la collina intorno Moria è diventato il più grande insediamento per migranti d’Europa, arrivando ad ospitare 12 volte il numero di persone ammesse nel campo ufficiale. Donne, uomini e bambini che vivevano esposti al gelo d’inverno e a temperature torride d’estate, senza elettricità, senza acqua corrente, senza cibo e medicine. La Grecia, per anni, ha rivendicato di non avere intenzione di ampliare gli hotspot, perché ampliarli avrebbe incoraggiato i richiedenti asilo intenzionati a raggiungere l’Europa. Significava dire: se continuate ad arrivare, facciamo spazio.
Invece l’Europa ha scelto l’immobilismo. Ha scelto di stare a guardare.
Così dal 2016 al 2019 sul territorio europeo, decine di migliaia di persone sono state lasciate vivere all’addiaccio, come animali, senza scuole, servizi igienici, senza supporto. In condizioni degradanti e pericolose.
Fino all’anno scorso, quando dopo decine di manifestazioni di protesta e richieste di supporto, un gruppo di giovani afghani, oggi condannati a dieci anni di detenzione, ha dato fuoco a una tenda. Di quel gesto estremo, figlio della disperazione e della frustrazione, oggi restano le recinzioni arrugginite e una collina deserta.
Feisal al Majeed, 48 anni, siriano, era nella sua tenda piantata quando ha sentito le grida dal campo. Si è affacciato, ha visto il cancello circondato dalle fiamme, ha preso una coperta, uno zaino e il telefono ed è corso via, sulla strada che da Moria porta a Mitilene, centro dell’isola. Si è seduto lungo il bordo della strada, al sicuro, ha steso la coperta e ha aspettato che i vigili del fuoco spegnessero l’incendio. Dopo ore di rogo, il mattino dopo, di quella che era stata casa sua per un anno e mezzo non restava niente. Era una tragedia e insieme l’opportunità che le cose, finalmente, cambiassero.
Così, insieme ad altri richiedenti asilo, ha bloccato la strada. In migliaia chiedevano, pacificamente, di non essere spostati in un altro campo. Mai più Moria, gridavano. Mai più Moria.
«Le fiamme erano l’inferno che mettevano fine a un altro inferno, l’inferno di Moria», dice.
La protesta è andata avanti per due settimane. In strada, a dormire sull’asfalto, anche le famiglie con bambini. Poi, dopo quindici giorni, le autorità li hanno forzatamente spostati nel campo di Kara Tepe in attesa di una soluzione stabile.
«Ho pensato che l’incendio sarebbe stato un punto di svolta, che non potevamo vivere peggio di come avevamo vissuto, mi sbagliavo. Prima almeno qualcuno ci vedeva, oggi non esistiamo più, siamo come fantasmi».
Feisal al Majeed è scappato dalla guerra di Aleppo nel 2014 con sua moglie e i cinque figli. Arrivato a Kilis, città turca al confine con la Siria, ha mandato avanti la famiglia con gli aiuti umanitari e qualche lavoro a giornata, ma più passavano gli anni più gli aiuti internazionali diminuivano e con essi la possibilità di trovare un lavoro dignitoso in Turchia. Così Feisal ha deciso di partire, da solo, verso l’Europa. Voleva raggiungere la Germania, ottenere asilo, e una volta ottenuti i documenti, ricongiungersi con la sua famiglia. È arrivato a Lesbo nel 2017. La sua richiesta di protezione umanitaria da allora è stata rigettata due volte. Sta aspettando la risposta al terzo appello. Ha vissuto per due anni e mezzo in una tenda all’aperto sulla collina di Moria e non vede le figlie e la moglie da quattro anni.
Oggi vive nel campo temporaneo di Mavrovouni, che ha sostituito Moria. «Quando ero in Turchia pensavo: non potrà andare peggio di così. Invece divento sempre più miserabile», dice Feisal, che vive il destino dell’esule, il transitorio che diventa definitivo.
Non erano solo i richiedenti asilo a dire «mai più Moria», anche il commissario per gli Affari interni Ylva Johansson, dopo l’annuncio del Patto europeo sulla migrazione, alla fine del 2020 aveva promesso che «non ci sarebbero stati più Moria» e anche il governo greco era dello stesso avviso.
Kyriakos Mitsotakis, il primo ministro greco, dopo il rogo ha promesso un nuovo inizio nella politica greca, impegnandosi a chiudere i campi sovraffollati come Moria, e pianificarne di nuovi, finanziati dall’Europa, e più «ospitali».
Mitsotakis, conservatore, ha radicalmente inasprito le politiche migratorie del suo Paese, e dopo l’incendio sapeva di poter chiedere denaro, forte del fatto che l’Europa vantava un credito. Pochi mesi prima dell’incendio, infatti, nel febbraio del 2020, il governo turco aveva spinto migliaia di rifugiati siriani sui bus verso il confine greco di Evros, allora Mitsotakis aveva parlato di invasione chiedendo all’Europa una risposta netta e un controllo dei confini che non facesse sconti a chi usava i migranti come «armi».
In sostanza, Mitsotakis chiedeva denaro e supporto politico alla linea dura di controllo dei confini terrestri. Ottenne entrambi. La Presidente della Commissione europea Ursula von der Leyen si recò personalmente a Evros ringraziando la Grecia di essere lo «scudo d’Europa». Poco importava se il controllo del confine terrestre equivaleva a (illegali) respingimenti di fatto.
In più, la Commissione europea stanziò 300 milioni di euro con cui Atene sta costruendo i nuovi campi chiusi sulle isole. Ne sono stati già inaugurati tre, il primo è stato a Samo.
Tornelli all’entrata, telecamere a circuito chiuso, recinzioni di filo spinato, servizi di sorveglianza avanzati, i nuovi campi chiusi sono strutture più simili a prigioni che a strutture dignitose di accoglienza.
Le azioni e i finanziamenti europei inviano un messaggio che non lascia margine di equivoco: renderemo difficile, se non impossibile ai richiedenti asilo raggiungere le frontiere esterne dell’Europa e per chi riuscirà comunque a entrare, si apriranno le porte di luoghi chiusi in cui saranno rigorosamente controllati e in cui le loro libertà saranno severamente limitate.
È evidente che più che servire a garantire la sicurezza di chi vive all’interno, i nuovi campi chiusi sono un modo per dissuadere gli altri dal cercare di raggiungere le isole greche.
La Grecia, una volta ancora, è laboratorio d’Europa. Il ministro della Migrazione Notis Mitarachi dopo l’inaugurazione del campo di Samo ha affermato che la priorità assoluta è «un’efficace protezione delle frontiere». Il suo primo ministro concorda, Mitsotakis sta dimostrando all’Europa che è vero che si possono controllare i confini e che il solo modo per farlo è usare la forza, in mare e a terra. E usare la forza significa legittimare i respingimenti.
Gli arrivi a Lesbo e sulle altre isole dell’Egeo sono diminuiti del 96 per cento negli ultimi 12 mesi.
Non c’è nessun controllo sui respingimenti illegali, nessuna sanzione.
L’Europa, una volta ancora, osserva e paga, mentre gli Stati membri ai margini dell’Europa continuano a violare la legge o negoziano accordi dubbi con Paesi terzi.
I richiedenti asilo come Feisal possono uscire dal campo con sempre maggiore difficoltà, in teoria per tre ore la settimana. I giornalisti non sono ammessi se non per presenziare alle sfilate di inaugurazione governative. Dalla collina di fronte all’area di Mavrovouni si vede, nitidamente, il nuovo volto dell’Europa, ossessionata dalla sicurezza.
Un’Europa che detiene migliaia di persone, strette tra il mare e il filo spinato.
Vite controllate dalle telecamere eppure non viste.
Paradosso dei tempi che viviamo. Possiamo essere ovunque, possiamo vedere tutto. Ma forse di quel tutto abbiamo timore, così tanto che condanniamo le vite migranti che bussano alle porte d’Europa al destino peggiore, quello dell’invisibilità.