L’intellettuale simbolo della primavera araba, in cella dal 2019 in condizioni proibitive, ha iniziato uno sciopero della fame a tempo indeterminato dal 2 aprile scorso. Mentre tace la comunità internazionale

Era d’estate, come di questi giorni. Otto anni fa al Cairo. Il suo atto di protesta, il suo primo sciopero della fame, lo iniziò d’agosto per poter assistere suo padre, agli ultimi giorni di vita. Alaa Abd-el Fattah, il più famoso prigioniero politico egiziano, era in cella come lo è ora. Suo padre, Ahmed Seif al Islam, il fondatore dell’avvocatura per i diritti umani del Paese, era confinato nel letto di una terapia intensiva. Lo sciopero della fame di Alaa si concluse, nel 2014, quando le autorità lo fecero uscire dal carcere di massima sicurezza di Tora, al Cairo, per partecipare ai funerali di sua padre, un maestro di diritto amato e rimpianto da generazioni di avvocati e di imputati.

Destini che si incrociano, quelli di un padre e di un figlio. Destini che coinvolgono una intera famiglia, la più importante e stimata famiglia di dissidenti. E il padre di Alaa lo sapeva bene. Lo aveva gridato a una conferenza stampa, pochi mesi prima di morire, rivolgendosi direttamente al figlio in carcere. «Figlio mio, avrei voluto che tu ereditassi da me una società democratica che proteggesse i tuoi diritti. E invece, ti ho trasmesso la cella in cui mi avevano imprigionato e in cui ora sei tu».

In quella cella, Alaa Abd-el Fattah è da nove anni, salvo alcuni mesi di libertà su cauzione o libertà vigilata. La sua colpa, tutta politica, è di essere la figura più iconica della rivoluzione del 2011. L’informatico, il pensatore laico, l’intellettuale che ha fatto emergere nel mondo virtuale la presenza, viva e reale, di una opposizione alla trentennale autocrazia di Hosni Mubarak. Le accuse formali? Protesta non autorizzata, la prima. E poi l’ultima sentenza di ulteriori cinque anni, dello scorso dicembre. Diffusione di notizie false, la stessa accusa mossa a Patrick Zaki.

Nel mezzo, una serie infinita di udienze, altre accuse, processi farsa, detenzione preventiva, arresto e detenzione del suo difensore. Nel mezzo, una vita in cella che non è vita. Dal 2019 in una cella senza materasso, e senza un orologio, un libro, una rivista, un pezzo di carta, una penna. Senza sole, senza aria, senza l’ora d’aria.

Il 2 aprile scorso, Alaa decide di iniziare uno sciopero della fame a tempo indeterminato. Niente più cibo e solo acqua. Privarsi del cibo per affermare fame di diritti e attaccamento alla vita, alla dignità, allo Stato di diritto, alla legalità. Lo sciopero della fame continua, ha raggiunto ora i quattro mesi. È il doppio dello sciopero della fame dell’irlandese Bobby Sands, per fare un paragone con un gesto inciso nella memoria europea.

Nel silenzio dei governi, la protesta di Alaa ha scavato il suo piccolo fiume carsico nei canali paralleli della società civile. Un digiuno della fame solidale a staffetta è in corso dalla fine di maggio in Italia. Manifestazioni si sono svolte a Londra, a Berlino, a Parigi, a New York. Tutte le associazioni dei diritti umani egiziane, e tutte le associazioni internazionali, a cominciare da Amnesty International, stigmatizzano le violazioni a cui è sottoposto Alaa Abd-el Fattah, divenuto con il suo calvario un simbolo per gli oltre sessantamila prigionieri - moltissimi dei quali in detenzione preventiva o condannati in processi farsa - che sopravvivono, o muoiono, nelle carceri egiziane, senza che neanche una flebile voce si alzi dalle cancellerie europee.

Una voce, ancorché timida, si è alzata a giugno nella Camera dei Comuni, a Londra. A parlare di Alaa, la ministra degli Esteri britannica Liz Truss per informare che il governo stava lavorando «alacremente per ottenere il suo rilascio». Perché mai il governo di Londra ha preso a cuore il caso di un prigioniero egiziano? Perché l’anno scorso Alaa Abd-el Fattah ha ottenuto la cittadinanza britannica, per via di sua madre Laila Soueif, matematica dell’università del Cairo, che nel Regno Unito aveva trascorso la sua infanzia assieme alla famiglia. L’idea, anche esplicitata, è di richiedere per Alaa un esilio «consensuale» a Londra.

Neanche un passaporto forte come quello britannico è riuscito, però, a cambiare molto della situazione di Alaa. Nonostante le richieste del consolato britannico che si susseguono dal dicembre dello scorso anno, nessun diplomatico è riuscito a vedere il detenuto Alaa e a sincerarsi delle sue condizioni. Nessun medico lo ha visitato e, anzi, le autorità si sono persino spinte a negare che Alaa stia conducendo uno sciopero della fame. Eppure la famiglia è testimone del suo digiuno. «Concentrati sul prezzo politico della mia morte. Deve essere il più alto possibile», Alaa ha per esempio detto a metà giugno a sua sorella Mona Seif. Aveva già sul corpo i segni di oltre due mesi di sciopero della fame: smagrito, molti chili persi, le mani così pallide da mostrare il blu delle vene. E le autorità egiziane hanno implicitamente confermato i loro timori di vederlo morire in cella, se in fretta, alla fine di maggio, lo hanno trasferito dall’inferno del carcere di massima sicurezza di Tora, all’istituto penitenziario di Wadi al Natroun, a un centinaio di chilometri di distanza dalla capitale. Finalmente un materasso su cui dormire dopo due anni. Finalmente mezz’ora fuori dalla cella, all’aria e sotto il sole, come se fosse una conquista.

E il mondo? E la comunità internazionale? E l’Unione Europea che si oppone all’autocrate Putin e poi cerca combustibile laddove possibile, anche alla corte di altri autocrati? Silenzio. Un silenzio assordante e miope. Nel nome del realismo politico, i diritti vengono considerati marginali, un orpello da mostrare quando è necessario. C’è però una differenza profonda tra il realismo politico e la conoscenza del reale. Una differenza che, in questi ultimi anni, ci ha costretti a riconsiderare molti dei paradigmi su cui si sono fondate le relazioni internazionali e tra Stati. Ci siamo accorti, per esempio, che l’Europa ha avuto un solo, determinante fattore di stabilità: la democrazia, intesa come sistema in cui i diritti sono protetti e sono per tutti, cittadini e no. E se la democrazia è il pilastro della stabilità, non può valere solo per noi e non per gli altri. Anche quando gli altri, in questo caso, sono egiziani e per quei diritti sono disposti a farsi anni di galera. A morirci anche. «Tutto quello che ci viene chiesto è di non smettere di lottare per ciò che è giusto», dice Alaa nel 2014, nella selezione di scritti (disponibile anche in italiano) che lo ha fatto ormai definire il Gramsci d’Egitto per la profondità del suo pensiero e della sua visione. Ironia della sorte, il 2014 è l’anno della prima guerra nel Donbass, e noi non ce ne eravamo accorti. Ironia della sorte, è l’anno in cui il regime di Bashar al Assad riprende il controllo dei cieli di Aleppo, aprendo la strada ai bombardamenti a tappeto dei caccia russi sulla città siriana culla della nostra civiltà.

Ora gli occhi sono puntati su Cop27, la conferenza sul clima che il prossimo novembre si aprirà a Sharm el Sheikh. Sì, sarà l’Egitto a ospitare la conferenza, come se l’emergenza climatica non sia strettamente legata ai diritti, ambientali e prima ancora umani. Subordinare il sostegno alla conferenza al rispetto dei diritti umani da parte del regime egiziano è il gesto politico che qualifica gli Stati di diritto. Ed è qui, su questo terreno, che si gioca la credibilità e la stabilità dell’Unione Europea, che dovrebbe parlare e non, al contrario, essere silenziosa. Afasica.

Opporre il proprio pensiero in modo non violento non è concesso, in un’autocrazia. Ed è anzi necessario, per un regime, espungere i corpi dalle piazze e nasconderli dietro le mura di un carcere. Renderli senza voce e invisibili. Perché una cosa senza nome non esiste. E una persona senza nome e senza storia non esiste per nessuno.

«Quale sarà la mia condizione se per i vivi sarò sempre morta e per i morti rimarrò straniera?», dice Antigone mentre la portano nella grotta in cui verrà sepolta viva e non vedrà più il sole per volere del tiranno di Tebe, il crudele Creonte. È Sofocle a raccontarcelo, in una delle tragedie più belle che il teatro greco ha regalato alla cultura mediterranea. È Sofocle a svelare, allora come oggi, le dinamiche del potere che ha sempre paura del pensiero libero. In questo tempo in cui siamo immersi nelle notizie, il silenzio su Alaa, sul suo nome e sulla sua storia, dice molto - forse tutto.