La denuncia

Le carceri russe di oggi sono come i gulag: ecco l’inferno in cui è rinchiuso Alexei Navalny

di Sabrina Pisu   12 settembre 2022

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Il principale oppositore di Vladimir Putin è in una delle colonie penali eredità dell’Urss. Tra torture e violenze, così piegano e distruggono le persone

«Niente visite, niente lettere, niente pacchi. Questo è l’unico posto della prigione in cui è vietato fumare. Mi danno carta e penna solo 1 ora e 15 minuti al giorno. Ho solo una tazza e un libro»: così il leader dell’opposizione russa Alexei Navalny ha denunciato attraverso Twitter il 15 agosto di essere stato messo in una «unità abitativa speciale (Shu)».

 

È una cella di isolamento all’interno della colonia penale IK-6 di Melekhovo, nella regione di Vladimir, 250 chilometri a est di Mosca, dov’è stato trasferito il 15 giugno dalla colonia penale IK-2 di Pokrov, per scontare la condanna ad altri 9 anni di carcere, inflittagli a marzo per “frode su larga scala” e “oltraggio alla corte”. Questo «isolamento nell’isolamento» è stato deciso dopo che Navalny aveva creato un sindacato dei prigionieri e denunciato le condizioni dei detenuti.

 

La battaglia del maggior oppositore di Vladimir Putin va avanti anche per cambiare le condizioni «mostruose» delle colonie protette da un muro di impunità. A scalfirlo ci ha provato Sergey Savelyev, 32 anni, bielorusso, condannato nel 2013 a nove anni per droga. Rilasciato nel 2021 ha consegnato a Gulagu.net, il gruppo russo per i diritti umani, fondato dall’attivista Vladimir Osechkin, un dossier e oltre mille video che documentano torture e abusi, soprattutto sessuali, sui detenuti.

 

Savelyev adesso è ricercato in Russia e continua a ricevere «minacce di morte». Vive in una località segreta francese. Per cinque dei sette anni e mezzo da detenuto è stato all’Ospedale penitenziario n.1 della colonia penale di Saratov, 800 chilometri a sud-est di Mosca. «Mi hanno picchiato, torturato per mesi, con l’acqua e l’elettricità. Ho desiderato morire». Poi lo hanno assegnato al Dipartimento di sicurezza per lavorare al computer: «È un sistema molto corrotto, nelle prigioni utilizzano il lavoro gratuito dei detenuti, un lavoro da schiavi. Ho accettato perché hanno promesso di liberarmi con la condizionale il prima possibile. Stampavo documenti, lavoravo con le videoregistrazioni delle camere di sorveglianza e così ho avuto accesso ai file che documentano quel che succede lì dentro».

 

A torturare i detenuti sono spesso altri detenuti su ordine degli agenti che rimangono così impuniti: «Formano squadre di reclusi che obbediscono a tutto, molti hanno subito torture e umiliazioni e si sono disumanizzati, sono anche loro vittime del sistema. Ci sono tanti casi di suicidio», dice Savelyev.

 

Le torture obbediscono a svariate necessità del sistema, controllato da Servizio federale penitenziario (Fsin) e dal Servizio federale per la sicurezza della Federazione russa (Fsb). Sono inflitte per un’infrazione, per estorcere informazioni, soldi o la totale disponibilità del condannato a farsi strumento di altri piani, ai quali collaborano spesso boss della criminalità organizzata.

 

Il tasso di incarcerazione in Russia è il più alto d’Europa: 328 detenuti per 100mila abitanti (fonte, Consiglio d’Europa) e le condanne medie sono quattro volte superiori a quelle degli altri Paesi europei.

 

«Nelle prigioni il sistema politico crea, di fatto, una serie di Putin a tutti i livelli», dice Sergei Davidis, al fianco di Navalny, ora esule in Lituania e per dieci anni direttore del programma di sostegno ai prigionieri politici e membro del consiglio della Ong russa Human Rights Center “Memorial”, classificata nel 2016 come “agente straniero” e chiusa, il 29 dicembre 2021 su ordine del tribunale di Mosca. «L’attenzione nei confronti di Alexei Navalny è troppo alta e quindi, probabilmente, non oseranno fargli del male. Ma rederanno la sua permanenza il più difficile possibile», continua Davidis.

 

«Niente assistenza sanitaria, 12 ore di lavoro al giorno, tutti i giorni, per 2 euro al mese: questo il regime nelle colonie penali», spiega da Mosca Olga Podoplelova, responsabile legale per Russia Behind Bars, Ong che lavora per migliorare le condizioni dei prigionieri.

 

Le colonie penali, istituite nel 1929 nella Russia di Stalin, sono sostanzialmente rimaste immutate. Baracche di legno e mattoni in luoghi remoti dove i detenuti lavorano per lo Stato. Oggi in Russia di luoghi così «che ricordano i gulag» ce ne sono 670, nota Giovanni Savino, docente di Storia dell’Europa orientale all’Università di Parma, che ha insegnato a Mosca per dieci anni ed è tornato in Italia, come atto di dissenso dopo l’invasione dell’Ucraina: «Proprio Navalny ha denunciato che all’interno delle strutture c’è una modalità di controllo fondata sulla creazione di una gerarchia tra i detenuti. Un sistema che va inquadrato nella storia del Paese e nel tentativo di creare una permanenza dell’ordine statale anche a livello carcerario».

 

Dall’inizio della guerra sono 15.413 i manifestanti pacifici arrestati secondo Ovd-Info, Ong russa per i diritti umani. Secondo Memorial il numero dei detenuti politici dal 2015 è aumentato di dieci volte, i prigionieri politici sono 1.300 su 466mila detenuti.

 

Sergei Davidis ha sperimentato direttamente i metodi di repressione politica con 10 giorni di arresto per aver ritwittato la notizia di una manifestazione a sostegno di Navalny. «Quasi tutti quelli impegnati nella difesa dei diritti umani o nell’opposizione politica sono finiti dentro per una o due settimane, si viene privati dalla libertà, si hanno 15 minuti al giorno per telefonare alla famiglia e si possono vedere gli avvocati. Nulla di paragonabile alla colonia penale».

 

La repressione politica in Russia si nutre di accuse false che schermano le ragioni vere della condanna di un oppositore. Proprio come in Urss. E come nel caso Navalny che Davidis ha difeso testimoniando al processo. «È un caso assolutamente politico, tutte le prove della sua colpevolezza sono false».

 

«In epoca sovietica esistevano degli articoli che punivano la dissidenza ideologica e politica, nella Russia di oggi si formulano accuse e sentenze che non sono formalmente politiche ma per corruzione, vandalismo e pedofilia come nel caso dell’attivista Jurij Dmitriev, condannato solo per aver tentato di dare un nome ai resti umani del terrore staliniano», dice Savino.

 

Il pregiudizio accusatorio è profondamente radicato all’interno del sistema giuridico russo dove il ruolo decisivo è svolto dalla procura. E Putin ha il diritto di nominare il Procuratore generale della Federazione russa. «Meno dell’1 per cento di tutte le persone processate è scagionato, l’assoluzione è vista come un fallimento dalle forze dell’ordine», spiega Vladimir Kudriavtsev, ricercatore russo in criminologia all’Università Statale della Florida. La tortura nelle fasi investigative è la regola. Il 90 per cento dei casi arriva in tribunale con una confessione. «Per i crimini meno gravi, c’è una sorta di “patteggiamento” alla russa, applicato nel 60 per cento dei casi: l’imputato non contesta l’accusa e il giudice timbra la decisione, infliggendo non più di due terzi della pena massima possibile», conclude Kudriavtsev.

 

Altra storia portare a processo le torture. Gulagu.net ci prova: «Ora si sta indagando sull’omicidio di un condannato spacciato per suicidio», dice Sergei Saveliev. «È molto complicato smascherare tutte le montature, ma non ci fermiamo».