Il leader dell’autorità palestinese potrebbe rompere con Hamas e assumere la guida morale del suo popolo. Il futuro della crisi visto da Richard Jones, esperto diplomatico Usa

Abu Mazen leader morale della Striscia di Gaza, al termine di un conflitto che non si allargherà alla regione. Secondo Richard Jones, ex ambasciatore americano in Israele, potrebbe essere questa l’ipotetica seconda fase dello scontro in corso. Al di là delle intimidazioni quotidiane di Iran ed Hezbollah libanesi filo-iraniani. «Potrei sbagliarmi, ma sarei molto sorpreso se mantenessero la minaccia di unirsi ad Hamas nel caso in cui Israele entrasse a Gaza», ci dice Jones, che ha rappresentato gli Usa a Tel Aviv tra il 2005 e il 2008.

 

Il diplomatico è certo che il sostegno politico e militare degli Stati Uniti al governo di Benjamin Netanyahu si concretizzi in un’azione deterrente. D’altra parte, le forze dispiegate dal Pentagono sono imponenti: un flusso di mezzi, munizioni e attrezzature che da Washington confluisce in uno degli eserciti più potenti al mondo. La titanica portaerei Ford è già nel Mediterraneo orientale e sarà affiancata dalla Eisenhower; e mentre raddoppiano i caccia messi a disposizione, si prepara una task force anfibia di marines, duemila soldati in stato di pre-allerta. Misure straordinarie che si aggiungono agli oltre 3,8 miliardi di dollari di aiuti militari con cui ogni anno gli Usa suggellano l’amicizia più fidata in Medio Oriente.

 

Ma gli sforzi militari, spiega l’ambasciatore, vanno di pari passo con la strategia della diplomazia americana. Il segno è quello tracciato da Joe Biden. Il presidente, pur esprimendo sostegno incondizionato, avverte che occupare Gaza sarebbe un “grave errore”, al netto della drammatica crisi umanitaria in corso. Insomma, gli Stati Uniti invocano moderazione, pur mostrandosi pronti in caso di escalation.

 

Ambasciatore, dunque, l’Iran starebbe bluffando?
«Non credo che sia pronto ad un confronto del genere. Non sappiamo che tipo di capacità logistiche abbia; dubito che siano molto avanzate rispetto agli Usa ma anche rispetto allo stesso Israele. E poi non credo che vogliano attaccare Gerusalemme, che è un luogo sacro. Lo stesso vale per Hezbollah; al momento stanno facendo lo stretto necessario per non attirarsi le critiche di Hamas o dell’Iran, che probabilmente li vorrebbero più attivi. Ma Hezbollah non ha mostrato grande propensione a provocare davvero gli israeliani, a parte l’iniziale intervento nella zona contesa delle fattorie di Sheeba. Ricordiamoci che ha avuto gravi perdite in Siria, non vorranno affrontare un’altra guerra così presto, sono ancora in una fase di ricostruzione».

 

Richard Jones

 

Quale scenario potremmo ipotizzare allora?
«Con un’azione piuttosto rapida, Israele dividerà Gaza in due per tagliare fuori l’area in cui pensa che Hamas abbia il grosso delle forze. E poi aspetteranno. Non ci vorrà molto. Le milizie hanno scorte per la propria gente, ma non per la popolazione. Ci sono centinaia di migliaia di civili in quell’area bisognosi di cibo e acqua, inizieranno a chiedere loro di arrendersi per poter sopravvivere. La vera questione è capire se Israele riuscirà davvero a spazzare via Hamas. Potrebbero semplicemente entrare in clandestinità».

 

A quel punto l’Autorità Nazionale Palestinese sarebbe in grado di occupare il vuoto?
«È il gruppo più organizzato dopo Hamas. Abu Mazen sta iniziando a posizionarsi come autorità morale del popolo palestinese. Sta dicendo che la maggior parte della popolazione di Gaza non sostiene Hamas, il che è vero. Se fossi un consigliere, gli direi di iniziare a parlare a nome del popolo, distanziandosi da Hamas. La crisi è un’opportunità per Abu Mazen di ristabilire le relazioni e di collaborare con gli Stati Uniti per evitare altri inutili spargimenti di sangue. Ciò riabiliterebbe l’Autorità palestinese e potrebbe porre le basi per un ritorno al governo a Gaza se Israele riuscirà a sradicare Hamas».

 

Lei parla di leader morale, ma non può bastare a colmare un vuoto di potere.
«No, certo. Occorre riorganizzare elezioni, ma ora è presto per questo, bisogna prima che la situazione si calmi. Affrettare il voto sarebbe un errore. In questa fase, sarà importante una cooperazione con le Nazioni Unite sul piano dell’assistenza umanitaria».

 

Biden ha assicurato che gli Stati Uniti possono continuare a sostenere l’Ucraina mentre aiutano anche Israele. Che ne pensa?
«Questo conflitto complica le cose e aumenta le spese, ma possiamo sostenere l’Ucraina e aiutare Israele. A Tel Aviv hanno carri armati, veicoli corazzati e capacità di produrre munizioni in grandi quantità».

 

A trarre vantaggio dalla situazione in Medio Oriente potrebbe essere non solo la Russia, ma anche la Cina a Taiwan.
«La dislocazione di alcune portaerei non influirà sulla nostra capacità di sostenere i nostri amici in Asia. Abbiamo diverse portaerei a propulsione nucleare a disposizione. Putin proverà a sfruttare il momento, ma è difficile capire come potrebbe farlo. Sta tentando di fare il pacificatore, ma non penso che cercherà di impegnarsi con l’Iran, complicherebbe il suo sforzo in Ucraina».

 

L’Arabia Saudita ha detto che gli accordi con Israele sono congelati. Potrebbero riprendere in futuro?
«Se sono congelati, possono sempre scongelarsi: una rottura sarebbe stata più difficile da invertire. Quando questo possa avvenire dipende da quello che succederà. Ovviamente, i sauditi non riprenderebbero mai le relazioni con un Paese che ha ucciso decine di migliaia di arabi innocenti. Ma non credo che questo accadrà».

 

L’Agenzia Internazionale per l’Energia ha sostenuto che il mercato energetico segue con apprensione l’evolversi della crisi. Dalla sua esperienza di ex vicedirettore dell’Aie, cosa prospetta?
«Non mi sembra che al momento ci siano pressioni reali sul mercato del petrolio, soprattutto perché finora nessuno dei produttori è coinvolto. Se però il conflitto si dovesse allargare, allora ci sarebbero problemi effettivi. Ma ricordiamoci che il mondo oggi ha più opzioni rispetto al passato».