Giovani, istruiti. Laureati e creativi. Abbandonano il regime per la paura del richiamo al fronte, e per la repressione del dissenso e la stretta sui diritti civili. Vi raccontiamo le storia di chi ha trovato riparo nel vicino Kazakistan

Dima arriva in taxi in Zharokov street, per cercare un locale dove bere un buon bicchiere di vino. È assieme a un amico e stasera vogliono festeggiare l’evento di design e architettura che hanno contribuito a organizzare. «Una sorta di rito scaramantico che precede le inaugurazioni di tutti i nostri progetti importanti – spiega – anche se questo ha un significato speciale».

 

Dima, Dimitry sul passaporto, e Mark si sono trasferiti ad Almaty da alcuni mesi e hanno già all’attivo una sponsorizzazione da parte della più grande città del Kazakistan, fino al 1997 capitale del Paese. Entrambi trentaduenni, sono nati e cresciuti a San Pietroburgo, lì hanno studiato architettura e mosso i primi passi nel mondo del lavoro.

 

«Avevo un contratto di ricerca con il mio ateneo – racconta Dima, un completo nero gessato e un baciamano con cinque anelli e altrettante falangi d’argento che ricalcano lo scheletro della mano – e anche se ero già pronto ad andare all’estero dal 2018, mi mancava quella spinta che con l’inizio del conflitto è arrivata come uno schiaffo».

 

La sua meta non era il Kazakistan, ma la Georgia. È bastato uno scalo a Istanbul per fargli nuovamente cambiare idea. «Era il 6 marzo, e la città era talmente affascinante che ho deciso di fermarmi lì. Non ero da solo, ma con un gruppo di amici e colleghi, che in Russia non riuscivano più a vedere un futuro. Una sera, dopo una mostra, siamo andati a fare il bagno nudi nel Bosforo e ci hanno arrestato. Ho trascorso 45 giorni in carcere, finché alcuni conoscenti di San Pietroburgo sono riusciti a farmi uscire. Tornare a casa è stato un trauma ancora più grande e mi ha fatto cadere in depressione».

 

Julia, 31 anni di Krasnodar, ha seguito Alexander in Kazakistan

 

All’annuncio di Putin della mobilitazione parziale, l’apatia di Dima si è scontrata con il fermento degli amici che pianificavano l’uscita dal Paese, cercando biglietti aerei, ferroviari, autisti che fossero in grado di condurli alla frontiera. I prezzi dei voli per la Georgia, l’Armenia, gli Emirati, erano più che quintuplicati da un giorno all’altro, ed erano arrivati a costare oltre 285 mila rubli, l’equivalente di 4 mila dollari: il Kazakistan, raggiungibile via terra, diventava l’opzione più semplice.

 

«I miei familiari hanno appoggiato la scelta di partire – racconta – da mia madre me l’aspettavo, dalla nonna un po’ meno perché guarda molta tv e purtroppo tutti i media sono impregnati di propaganda. Invece mi ha detto che capiva, perché è nata con la guerra e pensa che morirà durante un’altra guerra».

 

Non tutti i giovani che hanno lasciato il Paese hanno avuto lo stesso supporto dai propri cari. Ilyia, 29 anni, manager della ristorazione con la passione per la musica e la fotografia, non ha più contatti con i genitori da quando si è trasferito in Kazakistan.

 

«Mio padre è un militare e mi considera un traditore – racconta mentre si prepara per una serata al Blue Coffee, un locale di Almaty nato nell’edificio che un tempo ospitava l’ex ambasciata dell’Uzbekistan, in cui ha iniziato a suonare il venerdì – non accetta il mio rifiuto di prendere le armi, e di compiere quello che lui ritiene un dovere».

 

Durante i primi tempi del conflitto Ilya sperava, come tanti, che l’attacco si risolvesse in poco tempo. Quando ha realizzato che non sarebbe andata così, ha cominciato a pianificare il viaggio; il richiamo dei riservisti ha accelerato la sua partenza.

 

«Ho fatto il militare nei paracadutisti, sarei stato fra i primi a essere richiamato – dice – così in cinque giorni ho preparato il mio zaino e da Mosca sono andato a Samara in auto, per avvicinarmi alla frontiera. Lì ho cercato un autista che mi portasse fino al confine attraverso strade secondarie, per non trovare ostacoli. Sono entrato in Kazakistan a piedi, ho camminato nei boschi per settanta chilometri».

 

Ilya ha deciso di documentare le tappe del suo viaggio fotografando luoghi, persone e animali incontrati lungo il cammino. Arrivato a Uralsk è stato ospitato da un ragazzo del posto che gli ha offerto una stanza dove dormire, e lo ha aiutato ad acquistare i biglietti del bus per Astana e poi per Almaty.

 

Nei primi mesi dell’invasione dell’Ucraina, i cittadini russi che hanno lasciato il Paese sono stati più di 400 mila, secondo i dati diffusi da Rosstat, il servizio di statistica della Federazione Russa. Due settimane dopo l’annunciata mobilitazione parziale, i russi fuori dal Paese, per la maggior parte uomini fra i 18 e i 65 anni, risultavano almeno 700 mila, ma si stratta di stime al ribasso. Il Kazakistan è stata la meta principale, seguito da Georgia, Armenia e Turchia.

 

Secondo il ministero dell’Interno kazako, gli ingressi l’anno scorso sono stati più di 200 mila, ma la gran parte ha lasciato il Kazakistan poco dopo, alla volta di Uzbekistan, Kirghizistan o altri Stati dell’Asia o dell’Europa.

 

Nikita, 28 anni, programmatore informatico, si è trasferito ad Almaty ma si è poi spostato in Thailandia con la sua ragazza.

 

«Lasciare il mio Paese non era nei programmi prima della guerra, ma con la mobilitazione non era il caso di restare – racconta – ho sempre lavorato a Mosca e guadagnavo bene, vorrei tornarci il prima possibile, ma ora non è un posto sicuro».

 

L’arrivo di questi ragazzi ha stimolato un moto di accoglienza fra i kazaki. Alle prime ondate, Dilara Mukhambetova, direttrice di un cinema a Uralsk, città di confine, aveva aperto le porte della sala a chi aveva bisogno di un letto per la notte.

 

«Si è trattato di un’ondata migratoria particolare – ricorda – fatta per la maggior parte di giovani fra i 25 e i 35 anni, con un alto livello di istruzione, una professione già avviata, e una buona disponibilità economica. A causa della guerra la Russia sta perdendo intellettuali e creativi, la potenziale classe dirigente di domani».

 

La presenza dei nuovi abitanti nelle città ha provocato un’impennata dei prezzi: gli affitti delle case sono passati da 600 a 1.200 dollari al mese, con picchi di 2 mila se ci si avvicina al centro. E proprietari senza scrupoli non hanno esitato a sfrattare i vecchi inquilini locali per i russi disposti a pagare molto di più.

 

«Sono stato fortunato perché il mio compagno abitava già qui ad Almaty prima dell’esodo – racconta Sasha, medico infettivologo 32 enne di Murmansk – io ho deciso di raggiungerlo quando la direzione sanitaria dell’hospice in cui lavoravo mi ha informato che in caso di chiamata alle armi sarebbero stati obbligati a mandarmi al fronte. Ma il mio lavoro è fatto per salvare le vite, è eticamente incompatibile con la guerra».

 

Se la mobilitazione è stata la spinta definitiva a partire, Sasha progettava di lasciare il Paese anche a causa dell’inasprimento della legge contro la cosiddetta propaganda Lgbt, che rende illegale qualsiasi contenuto con riferimenti all’omosessualità. «Finora valeva solo per i minorenni, ed era già un fatto allarmante – racconta – ora non ci sono limiti di età, tutto è vietato per tutti, si deve incoraggiare solo il modello maschile del soldato, in un mondo dove i gay non devono manifestarsi pubblicamente».

 

Pur non rischiando direttamente di finire al fronte, anche alcune giovani donne hanno scelto di andarsene. Julia, 31 anni di Krasnodar, ha seguito il suo Alexander in Kazakistan, come lui aveva lasciato Mosca per lei, qualche anno fa. «Dopo la sua partenza, ho impacchettato quello che si poteva mettere in auto – ricorda - compresi il cane e il gatto di casa, e l’ho raggiunto. La notte in cui Alexander è partito non la dimenticherò mai, sono state ore di grande apprensione».

 

Liza invece è arrivata da sola. Mentre Putin annunciava la mobilitazione, era in Kazakistan da un mese per girare un documentario. «Quando sono tornata a Mosca ho scoperto cosa stava succedendo – dice – dalla finestra di casa che affaccia sulla stazione, vedevo ogni giorno decine e decine di giovani in divisa che aspettavano il treno, e pensavo che stavano andando a morire. Dopo il 24 febbraio 2022, avevo deciso di restare per dare il mio contributo alla resistenza. Poi ho capito che non avrei più avuto una vita normale. Per una manifestazione ho rischiato l’arresto, mi sono salvata solo perché sono riuscita a correre e a nascondermi dalla polizia. Eppure continuo a chiedermi cosa sia giusto: se tutti vanno via la propaganda vince, perché le voci dell’opposizione non ci saranno più. È dura andarsene, è dura restare».

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