Scenari

Erdogan gioca col fuoco mentre la Turchia è sull'orlo del collasso

di Eugenio Occorsio   16 novembre 2023

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Inflazione alle stelle, debiti, post terremoto. Il "sultano" guida un Paese in grande difficoltà. Ma la sua politica di sostegno agli estremisti lo ha del tutto isolato

Ad ascoltare Recep Tayyip Erdogan c’era da tremare: «Hamas non è un’organizzazione di terroristi ma di mujahiddin (patrioti, ndr) che combattono per la liberazione della loro terra», ha tuonato di fronte al Parlamento di Ankara il 26 ottobre. Dieci giorni dopo ha rincarato: «Denunceremo Benjamin Netanyahu alla Corte penale internazionale per crimini di guerra». In realtà c’era poco di cui stupirsi, commenta Stefano Silvestri, già sottosegretario alla Difesa e consulente di diversi governi: «Erdogan è sempre stato vicino ai “fratelli musulmani” di varie nazionalità, dei quali Hamas è una filiazione. Il fatto è che anno dopo anno coglie ogni possibile occasione per affermare un ruolo che lui vorrebbe egemonico in Medio Oriente». Eppure, aggiunge Ferdinando Nelli Feroci, ambasciatore ed economista, presidente dell’Istituto Affari internazionali, «proprio sulla Turchia assieme al Qatar, appunto per la loro “familiarità” con Hamas, si puntava per una mediazione». Ormai anche gli americani (la Turchia è membro Nato) si sono messi in guardia. «Hanno compreso – dice Nelli Feroci – che del loro impegno in Medio Oriente, nonostante gli errori del passato, c’è ancora bisogno, se non altro per fare da contraltare all’attivismo russo. E i rapporti fra Putin e Erdogan sono anch’essi di lunga data». Così alla fine, lunedì 6 novembre, il segretario di Stato americano Antony Blinken ha inserito Ankara nel suo tour nei Paesi coinvolti alla disperata ricerca di una soluzione. Non ha incontrato il “sultano” ma il ministro degli Esteri, Hakan Fidan. La richiesta è stata però la stessa: lavorate con noi almeno per evitare l’allargamento del conflitto.

Erdogan rischia grosso. Il “dittatore di Ankara”, come lo definì Mario Draghi (salvo poi stringergli la mano dopo pochi mesi), guida un Paese sull’orlo del collasso economico per il quale un isolamento internazionale sarebbe fatale. «Nei guai economici della Turchia, Erdogan non è privo di responsabilità», commenta Valeria Talbot, responsabile dell’osservatorio Medio Oriente dell’Ispi. «Negli ultimi anni ha imposto alla Banca centrale di tenere i tassi d’interesse bassissimi malgrado l’inflazione galoppasse. Si è arrivati a periodi in cui l’inflazione era oltre l’80% ma i tassi non salivano». Due peccati in uno: il non rispetto dell’autonomia delle istituzioni finanziarie e il populismo incosciente. Il tutto mentre le spese militari salivano del 150% e la moneta inevitabilmente si sgretolava: per un dollaro servono 29 lire turche, all’inizio del 2023 ne bastavano 19 e a inizio 2022 (anno in cui la svalutazione è stata del 30%) ne servivano 13. Ancora peggio nel 2021 quando la lira perse il 44% sul dollaro e così via arretrando negli anni: all’inizio dell’era Erdogan (2003) con 3 lire compravi un dollaro.

Da qualche tempo però qualcosa stava cambiando: «Vinte le elezioni politiche della scorsa primavera superando al ballottaggio il rivale socialdemocratico Kemal Kilicdaroglu – riprende Talbot – Erdogan ha avviato una nuova fase di politica economica». Il presidente ha chiamato a fianco a sé due executive che lavoravano a Wall Street: Mehmet Simsek dalla Merrill Lynch a ministro del Tesoro e Hafize Gaye Erkan da Goldman Sachs alla guida della Banca centrale, la prima volta di una donna. Grazie al larvato cambio di rotta, Moody’s ha rivisto in maggio l’outlook da “negativo” a “stabile” e la World Bank ha riaperto il dossier di un prestito da 18 miliardi di dollari che stava per finalizzare (oltre ai 17 miliardi già attribuiti). «È stata avviata – aggiunge Talbot – una serie di misure più in linea con l’ortodossia economica a partire dal rialzo dei tassi, portati rapidamente fino al 35%». Ora si attendono gli effetti anche se l’inflazione per ora si mantiene sul 60%.

Intanto il “califfo” si è impegnato in un’opera di ricucitura senza precedenti con i Paesi dell’area, non ultima la Siria dopo che per dieci anni aveva cercato con ogni mezzo di scardinare il regime di Bashar al-Assad. Erdogan ha normalizzato negli ultimi mesi le relazioni diplomatiche con l’Arabia Saudita, gli Emirati Arabi e perfino con Israele. Nel primo caso i rapporti erano interrotti dal 2 ottobre 2018 quando il giornalista Jamal Khashoggi fu trucidato nel consolato saudita di Istanbul per volere (stando alle conclusioni della Cia) del principe Mohammed bin Salman. Ora Erdogan, in cambio di aiuti finanziari diretti e della vendita alla difesa saudita di droni Bayraktar di fabbricazione turca, ha affossato il processo contro i killer del giornalista. Quanto agli Emirati, è arrivato l’impegno finanziario a sostenere con oltre 10 miliardi fra crediti all’export e finanziamenti in bond garantiti, la ricostruzione dal terremoto del 6 febbraio 2023 (una tragedia di proporzioni bibliche con 50 mila morti che ha comportato danni economici, stima la World Bank, di 34,2 miliardi di dollari). Ma la ricomposizione delle relazioni più laboriosa è stata con Israele. Nel 2009 al forum di Davos, Erdogan ebbe un plateale litigio con Shimon Peres, accusato di uccidere bambini palestinesi. Molto peggio, il 9 maggio 2010 la nave turca “Mavi Marmara” forzò il blocco navale israeliano per portare aiuti direttamente a Gaza. Fu attaccata dalle forze speciali Shayetet 13 che salirono a bordo uccidendo dieci marinai/attivisti turchi. Il gelo fra i due Paesi a quel punto fu totale e durò fino al 2022, quando furono scambiati di nuovo gli ambasciatori: ora sono stati ancora una volta richiamati perché è arrivato il 7 ottobre e qualsiasi processo di distensione è andato in fumo.