Freddezza verso Hamas. Toni bassi verso Israele. Il regime degli ayatollah si tiene lontano dalla guerra, ma continua con le sue provocazioni. Preoccupato delle proteste interne. E punta al dialogo con gli Usa

Quando il 7 ottobre i guerriglieri di Hamas hanno sferrato il feroce attacco contro Israele, uccidendo 1.200 cittadini inermi, ferendone 2.500 e prendendone in ostaggio più di 200, assieme all’orrore un brivido ha attraversato la schiena degli osservatori internazionali: «È l’Iran», era il sentire comune. Troppo efferato, troppo organizzato, per essere il frutto di un manipolo di terroristi per quanto spietati. E nei giorni successivi, di fronte alla violenza della reazione israeliana che perfino l’amministrazione americana ha definito «sproporzionata», di nuovo si è diffusa una convinzione: «Ora l’Iran reagirà». Invece, niente di tutto questo. Teheran, che pure è uno sponsor dichiarato sia di Hamas sia dei paramilitari gemelli di Hezbollah che cingono d’assedio Israele attraverso i confini con Libano e Siria, ha preso le distanze da quanto accaduto. Anzi, ha fatto filtrare di essere sorpresa da un attacco di questa magnitudine e di non avere alcuna intenzione di entrare nel conflitto. Il mondo intero ha tirato un sospiro di sollievo quando, quattro settimane dopo l’attacco, Hassan Nasrallah, leader di Hezbollah, ha usato i soliti toni reboanti contro il nemico ebreo ma non ha dichiarato guerra.

 

È disinnescata, per ora, la minaccia di un allargamento del conflitto. «L’Iran in questo momento non ha interesse a fare guerre frontali, anche perché ha paura di perderle in un bagno di sangue: ricerca sempre l’instabilità né ha cambiato opinione su Israele, ma è più che altro concentrato sull’opposizione interna», spiega Pejman Abdelmohammadi, docente di Relazioni internazionali con specializzazione in Medio Oriente all’Università di Trento. «Certo, continua le sue provocazioni, le sue proxy fight, i lanci di razzi da Nord su Israele o addirittura dagli houthi, gli sciiti zayditi che combattono nello Yemen, ma lì si ferma. È quanto basta per mantenere un certo grado di tensione e di paura, ma senza sconvolgere l’intero Medio Oriente con un conflitto “tradizionale”». Gli americani sembrano essersi adeguati da ben prima dell’attacco di Hamas. «Joe Biden, appena entrato in carica all’inizio del 2021, ha cercato di ripristinare relazioni decenti con l’Iran dopo che Trump aveva stracciato nel 2018 il Comprehensive plan of action, il famoso Jcpoa, che era stato faticosamente raggiunto da Barack Obama nel 2015 per regolamentare l’utilizzo dell’energia nucleare in Iran senza il rischio che il Paese voglia dotarsi dell’arma atomica», spiega l’esperto di geopolitica Stefano Silvestri, già sottosegretario alla Difesa. «Biden aveva riaperto i termini dell’accordo, perché per l’America è indispensabile un Iran meno belligerante dopo i disastri in Iraq e in Afghanistan, per potersi finalmente ritirare dalla regione». Il riavvicinamento stava andando avanti: gli Stati Uniti avevano sbloccato 6 miliardi di dollari congelati per l’embargo e promesso di far cadere la classificazione come “Stato canaglia” purché la smetta di appoggiare i terroristi, con conseguente ritiro dell’embargo stesso. Ancora: Washington ha condotto per mano Teheran a un accordo con l’Arabia Saudita, potenza regionale nemica storica per motivi religiosi (sciiti a Teheran, sunniti a Riad) ma soprattutto per l’egemonia nell’area. Intesa suggellata con la riapertura delle rispettive ambasciate quest’estate. Intanto procedeva il cammino per il nuovo accordo nucleare: «Erano – dice Silvestri – ai dettagli: le quantità di uranio arricchito che l’Iran può importare, il grado di arricchimento, il ruolo dell’Agenzia internazionale dell’energia nei controlli».

 

Poi però è caduta sul Medio Oriente qualcosa di peggio di una bomba con l’attacco di Hamas. «Tutto si è di nuovo congelato», spiega Ferdinando Nelli Feroci, presidente dell’Istituto Affari internazionali. «Nel frattempo, il regime di Teheran deve fronteggiare un’opposizione interna, per i diritti umani, che ha assunto ormai le dimensioni di una rivolta con più di 500 morti». Intorno a questa sfida, forse più che alla Palestina, ruota il destino della leadership iraniana, alle prese con la successione al capo supremo Ali Khamenei, 84 anni e piuttosto malfermo di salute: nel 1988 prese il posto di Ruhollah Khomeini che aveva ripristinato nel 1979 la Repubblica Islamica.

 

L’Iran in questi anni ha intensificato la collaborazione economica con la Cina (che non essendo vincolata da sanzioni gli compra l’80% del petrolio di cui Teheran è il terzo produttore mondiale) e quella militare con la Russia, che bombarda quotidianamente l’Ucraina con droni iraniani. In questo quadro Biden vuole, con il nuovo accordo sul nucleare, al contempo disinnescare una mina pericolosa prima di lasciare l’area, ristabilire la leadership americana e magari segnare un punto prima delle elezioni. Gli Stati Uniti tra l’altro, scrive Foreign Affairs, sono indecisi (lo è anche l’Europa): non sanno se appoggiare la rivolta interna in nome dei diritti violati, o il regime in nome della stabilità. Troppi errori, ha riconosciuto Biden: l’appoggio ai mujaheddin afgani in chiave antisovietica negli anni ’80 (ne uscì Al-Qaeda), il via libera all’Isis anti-Assad, la fuga dall’Afghanistan nell’agosto 2021 e prima ancora l’abbattimento nel 2003 di Saddam Hussein con l’apertura di un’interminabile stagione di lotte intestine in Iraq. L’unica beneficiaria fu proprio Teheran che vide eliminato gratis un insidioso nemico: Iraq e Iran erano stati in guerra dal 1980 al 1988, il più lungo conflitto mediorientale. Un altro regalo sarebbe troppo.