Intervista

«Vladimir Putin ora è debole, con vere sanzioni potrebbe cadere»: parla l’ex consigliere del Cremlino

di Eugenio Occorsio   30 giugno 2023

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«La tenuta dell’economia è uno dei pochi strumenti che gli sono rimasti per tenere calma la sua gente». Le parole di Sergej Guriev, ora professore a Parigi

«Vladimir Putin è molto più debole ora, malgrado le dichiarazioni muscolari. Tutti hanno visto che non può contare su un supporto generalizzato e che può essere sfidato con un margine di successo». Sergei Guriev parla con voce accorata, ma non è da oggi che segue con angoscia le sorti del suo Paese. Ha vissuto in prima persona la parabola del capo del Cremlino, fin da quando andò al potere dando al mondo l’impressione che forse con lui la Russia avrebbe potuto avviarsi sul cammino delle moderne democrazie liberali. Invece è andata in tutt’altro senso.

Se Evgeny Prigozhin era il “cuoco del Cremlino”, Guriev è stato per anni l’intellettuale, anzi l’economista di riferimento dell’establishment russo: nato nel 1971 in Ossezia, liceo a Kiev, laurea a Mosca, specializzazione al Mit di Boston, era fino al 2013 rettore della prestigiosa Moscow New Economic School, dove preparava la transizione verso l’economia di mercato. Intanto era un ascoltato consulente di Putin, membro del board delle più importanti banche, nonché speechwriter per Dmitry Medvedev quando è stato presidente fra il 2008 e il 2012. Tutto si è infranto nel 2013: spirito libero per eccellenza, ebbe l’ardire di criticare Putin per la persecuzione contro Aleksej Navalny e si pronunciò contro la pretestuosa condanna per corruzione di Mikhail Khodorkovsky, l’uomo più ricco di Russia e capo del gigante del petrolio Yucos. Le porte del Cremlino si sbarrarono per Guriev e una notte la polizia andò a perquisirgli casa.

Con la moglie Ekaterina Zhuravskaya, anche lei stimata intellettuale, lasciò Mosca e si stabilì a Parigi. Qui è diventato professore di economia a Sciences Po, la fucina del progressismo illuminato, dove è anche “provost”, cioè direttore amministrativo. E per la moglie porte aperte all’altrettanto prestigiosa Ehess (Ecole des hautes etudes en sciences sociales).

Abbiamo incontrato Guriev fra le colline di Franciacorta, dove ha partecipato applauditissimo alla Summer School dell’Istituto Iseo, un think-tank economico fondato da Franco Modigliani e oggi presieduto dall’altro Nobel Robert Solow. Dopo pochi giorni, lunedì scorso, l’abbiamo richiamato a Parigi. Domanda naturale: c’era la Cia, che ha ammesso di sapere quello che stava per accadere, dietro la mossa di Prigozhin? Dopotutto, è un mercenario. «Sono abbastanza sicuro di no, se fosse stata la Cia a organizzare tutto l’operazione sarebbe stata gestita meglio e portata a compimento. Quello che non si può escludere, piuttosto, è che nel corso della giornata (sabato 24 giugno, ndr) siano arrivate a Prigozhin delle proposte economiche da parte di qualcuno della cerchia di Putin perché desistesse, mentre Mosca si preparava a una strenua difesa». Del resto, riflette ancora Guriev, «Prigozhin era da diverse settimane stretto all’angolo. Aveva provato a defenestrare il capo di Stato maggiore Valery Gerasimov e il ministro della Difesa, Sergei Shoigu, entrando irrimediabilmente in rotta di collisione con Putin: restava solo da capire chi avrebbe colpito per primo. Ha provato a essere lui ad attaccare, poi ha visto che Mosca era ben munita e ha aderito alla proposta del capo bielorusso Aljaksandr Lukashenko che ovviamente era in contatto con Putin. I veri termini della trattativa non li conosceremo mai». Così come l’efficacia a questo punto dell’offensiva in Ucraina: «Se tutti gli ex Wagner entreranno nelle file dell’esercito non cambierà molto, ma non è ancora chiaro in quanti accetteranno la “regolarizzazione”».

Non è certo l’unico mistero che circonda la Russia. Ad esempio, la settimana scorsa rublo e Borsa sono andati in caduta libera, ma le conseguenze economiche delle sanzioni sono oscure. «I famosi “price cap” su gas e petrolio – dice Guriev - sono arrivati con grave ritardo. Meglio tardi che mai, ma intanto Mosca ha accumulato un surplus di bilancia dei pagamenti arrivato nel corso del 2022 a 230 miliardi di dollari, quasi il doppio del 2021: ricordiamoci che ogni miliardo di petrodollari nelle mani della Russia significa un miliardo in munizioni, compresi i droni iraniani, usati per uccidere gli ucraini». Solo negli ultimi mesi si cominciano a vedere risultati tangibili, tanto che il Pil dell’anno scorso alla fine è risultato negativo per il 2,1%, e un risultato analogo è previsto per quest’anno. Non da tutti i centri studi, però: per esempio il Fondo Monetario lo vede in (leggera) crescita, mentre secondo il World Economic Forum ci sarà un crollo del 7-8%.

«L’incertezza è dovuta alla miriade di accordi più o meno sotterranei che Mosca intrattiene con tutti i Paesi non allineati con gli embarghi, dalla Cina all’India, per non parlare delle relazioni commerciali anomale con molte repubbliche ex sovietiche». Se l’Armenia aumenta del 160% le importazioni dall’Occidente, o l’Azerbaijan del 195%, il sospetto che qualche fornitura clandestina arrivi a Mosca non può non esistere. Ed ecco bypassati le undici tornate di sanzioni americane e europee (le ultime le ha ratificate il consiglio di Bruxelles il 23 giugno) e il congelamento dei beni di ben 1500 oligarchi nonché dei 300 miliardi di riserve in valuta e oro che la banca centrale detiene in Occidente. «La tenuta dell’economia - dice Guriev - è uno dei pochi strumenti rimasti in mano a Putin per tenere calma la sua gente».

Il capo del Cremlino era il tipico esempio di quegli “spin dictators”, dittatori che restano in sella con qualche forma di propaganda pur mendace, ai quali Guriev ha dedicato il suo ultimo libro che era uscito nel gennaio 2022 e ha appena ripubblicato con un’ampia prefazione dedicata alla guerra: “Spin dicators, the changing face of tiranny in the 21st century”.

«All’inizio - spiega l’economista - si presentano sì come autocrati, però blandiscono il popolo con una serie di concessioni, un atteggiamento apparentemente dialogante, il benessere economico. Qualcuno regge in quest’equilibrio precario, altri deragliano drammaticamente e diventano spietati “fear dictator” come Putin, basando il potere sulla paura». Via le libertà di stampa e di critica, carcere duro se non peggio per gli oppositori, bavaglio al potere giudiziario, violenza interna legalizzata e violenza esterna che arriva alla guerra. «È un cammino che Putin ha progressivamente seguito nei suoi vent’anni di potere da un estremo all’altro, da cui non si torna più indietro».

La stessa durata al potere è un’arma a doppio taglio: «Finché sono nella fase “spin”, i dittatori favoriscono la crescita economica e culturale del popolo, poi però questo miglioramento qualitativo comporta la crescita della consapevolezza, delle aspettative, quindi la domanda di democrazia. Allora arriva il corto circuito». Con gradazioni diverse, di “spin dictators”, aggiunge Guriev, è pieno il mondo, dal Venezuela alla Turchia. «Ci sono anche quelli che avrebbero voluto diventare autocrati e non ci sono riusciti: da Donald Trump alla buonanima di Silvio Berlusconi».