Il premier rallenta le riforme per l’ingresso nell’Unione e la popolazione scende in piazza spontaneamente, nonostante le cariche della polizia. E le squadracce

Guardate il Parlamento, al buio, chiuso, l’unica cosa viva al suo interno è la polizia», grida un manifestante dal megafono: «Oggi la vita della Georgia, il futuro di questo Paese, siamo noi e non ce ne andremo fino alla vittoria!». Intorno, migliaia di persone, molte delle quali a volto coperto, e tante bandiere dell’Unione europea. Da quando il governo ha dichiarato che rinvierà le riforme chieste da Bruxelles per finalizzare l’ingresso nell’Ue, di cui la Georgia ha lo status di candidato, nel Paese caucasico è esplosa la protesta. Non solo a Tbilisi, la capitale, ma anche a Kutaisi, a Batumi e nelle altre cittadine georgiane ogni sera si riuniscono decine di migliaia di persone per chiedere le dimissioni del governo e un percorso blindato verso l’Europa.

 

I manifestanti accusano il primo ministro Irakli Kobakhidze e il suo partito, Sogno georgiano, di voler riportare la Georgia nell’orbita russa. «Sarebbe come tornare indietro di 30 anni», racconta Tamara, appoggiata su una transenna di Piazza della Libertà, a pochi metri dal Parlamento. Dietro di lei, i minacciosi idranti della polizia e le luci delle camionette dei reparti anti-sommossa. «Per noi – continua la donna – l’Europa significa una possibilità di scelta, sappiamo che non è un modello perfetto, non siamo degli illusi, ma la Russia è il passato, è la guerra, e non la vogliamo né per noi né per i nostri figli». Il nemico è il partito di governo, che i manifestanti considerano filo-russo, e il suo deus ex machina: Bidzina Ivanishvili, l’uomo più ricco di Georgia, con un patrimonio stimato intorno ai 7 miliardi e mezzo di dollari, pari a un terzo dell’intero Pil nazionale. Ivanishvili è un amico personale di Vladimir Putin e intrattiene rapporti cordiali con tutti: dall’Ue alla Nato ai Paesi dell’ex-Urss. Nell’aprile del 2012 ha fondato Sogno georgiano e sei mesi dopo è diventato primo ministro. Da allora ha più volte dichiarato di aver abbandonato la politica, ma i georgiani lo vedono come il vero manovratore dell’azione di governo. Alle elezioni del 26 ottobre scorso Sogno georgiano ha ottenuto una maggioranza schiacciante, conquistando 89 seggi su 150 grazie al 53,9% delle preferenze. Le opposizioni hanno gridato allo scandalo accusando il governo di aver truccato i dati. 

 

La presidente della repubblica, Salomé Zurabishvili, si è spinta fino a dichiarare che non lascerà il suo incarico il 14 dicembre, come previsto dal calendario istituzionale, ma che resterà al suo posto «per proteggere la democrazia georgiana e il percorso di adesione all’Ue». A oggi non sono state fornite prove evidenti delle irregolarità e gli osservatori internazionali concordano sul fatto che probabilmente ci sono stati dei brogli, ma non in quantità sufficiente a stravolgere l’esito del voto. I manifestanti sono generalmente concordi sul fatto che le elezioni siano state rubate, ma non è quest’accusa che ha fatto scoppiare le proteste. Il 29 novembre il primo ministro ha dichiarato di voler «sospendere il processo di adesione del Paese all’Ue fino alla fine del 2028». La sera stessa la Georgia si è riversata nelle piazze. Secondo alcuni a Tbilisi c’erano addirittura 100mila persone, una cifra più che significativa in un Paese di 3,7 milioni di abitanti, molti dei quali vivono in zone rurali. Da quel momento non c’è stato un attimo di pausa, lo si vede negli occhi di chi di giorno va a lavoro e la notte si presenta di fronte al Parlamento di Tbilisi, nei locali aperti solo per offrire tè e caffè gratuitamente a chi protesta e negli innumerevoli cortei che ogni giorno riguardano un settore professionale diverso. Medici, avvocati, architetti, giornalisti, dipendenti pubblici, addetti alla grande distribuzione dei supermercati... in ogni ambito c’è un gruppo che chiede agli altri di «scegliere da che parte stare» perché il momento è percepito come decisivo. Il dato politico più interessante è che, nonostante siano già trascorse alcune settimane, il movimento ha mantenuto i caratteri spontanei dei primi giorni. Non è emersa la figura di un leader riconosciuto né sembra che i manifestanti ne sentano il bisogno. 

 

Il governo ha arrestato alcuni capi dei partiti d’opposizione accusandoli di «alimentare le violenze», ma la maggior parte dei manifestanti dichiara di non riconoscersi in quelle formazioni politiche e, anzi, di considerarli il retaggio di un sistema corrotto che ha portato il Paese a questo punto. Poi, dopo cena, tutti si riversano sul viale Rustaveli e iniziano a sparare i fuochi d’artificio contro il Parlamento e la polizia schierata in assetto anti-sommossa. Quando gli agenti caricano e sparano i lacrimogeni, la folla indietreggia, ma non si disperde. I georgiani tengono le posizioni con tenacia, fino al mattino. Kobakhidze ha già affermato più volte che le proteste si erano esaurite, ma puntualmente è stato smentito dai fatti. L’assenza di una struttura alla lunga influirà senz’altro sulla tenuta di questo movimento spontaneo, ma non è detto che la situazione resti così com’è e i primi segnali di cambiamento si percepiscono già. Per esempio, da quando per le strade sono comparsi i cosiddetti «titushki», i picchiatori incappucciati e vestiti di nero che secondo i manifestanti agiscono per conto del governo, alcuni gruppi all’interno dei cortei hanno iniziato a organizzarsi. «Non vogliamo violenza, ma se la polizia non ci difende dobbiamo farlo noi», racconta un uomo incappucciato del quale si vedono solo gli occhi: «Mio figlio l’altro giorno è stato picchiato in una delle vie intorno al Parlamento, mia figlia è stata molestata mentre tornava a casa... ora basta».