Cultura

Perché James Baldwin è ancora così amato (anche sui social)

di Simone Alliva   22 marzo 2024

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Popolare su Instagram e TikTok, apprezzato dagli scrittori di oggi. Evocato alle manifestazioni per i diritti civili. Violando tabù e collegando omosessualità e razzismo, ha alzato la voce contro ogni tipo di ingiustizia e discriminazione. Lasciando, a un secolo dalla nascita, un’eredità intellettuale potente e attualissima

In tanti si chiedono, ancora, come mai James Baldwin, scrittore afroamericano, omosessuale, a cent’anni dalla nascita sia diventato una celebrità globale amata - soprattutto dalle persone nere e lgbt - e viva, oltre la sua stessa scrittura: Baldwin che diventa icona dipinta sugli striscioni delle manifestazioni per i diritti civili. Baldwin rilanciato nei post Instagram mentre ricerca le parole da scrivere, con i suoi occhi liquidi, ombreggiati che brillano. Baldwin e le sue interviste televisive che macinano like su TikTok. Come mai la sua arte adesso è quella che tutti vogliono conoscere e gli scrittori, anche italiani, imitare, inseguire, raggiungere perdendosi dentro una missione impossibile e patetica. Perché le sue parole entrano dentro e parlano di noi, si potrebbe facilmente rispondere. Perché non è solo uno scrittore che si occupava di diritti civili, anzi non lo era affatto: rifiutò sempre l’etichetta di attivista. In occasione di un intervento all’Università di Berkeley, nel 1979, si riferì al movimento per i diritti civili dei neri definendolo come «l’ultima ribellione degli schiavi». Si limitava - ha molte volte detto e scritto - a raccontare la verità: «Lo scrittore ha bisogno di ogni briciolo di forza che riesce a raccogliere per cercare di vedere se stesso e il mondo quali sono in realtà».

 

Nero e gay nell’America degli anni Cinquanta, prima dei movimenti per la liberazione omosessuale e quando per i neri americani c’era ancora il segregazionismo. Già a 16 anni stava creando il mondo in cui voleva vivere, un mondo in cui le parole che gli altri usavano per descriverlo avevano poco impatto. «Tutte le categorie americane di maschio e femmina, etero o no, neri o bianchi, furono distrutte molto presto nella mia vita», scrisse in un articolo del 1985 intitolato “Here Be Dragons or Freaks and the American Ideal of Manhood”.

 

 

«Non senza angoscia, certo; ma una volta che hai individuato il significato di un’etichetta, può sembrare che ti definisca per gli altri, ma non ha il potere di definire per te stesso». Una rivoluzione che lui chiama semplicemente: “La Nuova Gerusalemme”, il luogo in cui le persone come lui non avevano nulla da dimostrare, in cui l’identità di una persona non veniva illuminata soltanto alla luce dell’oppressione che subiva. Alieno dentro il grande movimento dei diritti civili: i suoi lunghi soggiorni all’estero venivano visti come tradimenti alla causa, aggravati dal suo orientamento sessuale, l’omofobia era solida. Baldwin poi raccontò di un odio verso i bianchi che egli considerava corrosivo per la sua comunità, proveniente sia dalle chiese dove ha lavorato, sia dalla Nation of Islam (di cui uno dei più famosi attivisti era stato Malcolm X). «Nella Chiesa l’amore era sconosciuto: la salvezza si arrestava sulla sua porta» scrive ne “La Prossima volta il fuoco” (Fandango Libri). Lo ricorda bene Angelo Pezzana che lo incontrò il 19 novembre del 1965: sei anni dopo Pezzana fondò il F.U.O.R.I (Fronte unitario omosessuale rivoluzionario italiano), il primo movimento omosessuale in Italia. Lo scrittore americano fu ospitato a Torino per due giorni, nella libreria di Pezzana, la Hellas, per inaugurare il ciclo di “Venerdì letterari” con una conferenza intitolata “Responsabilità dello scrittore negro negli Stati Uniti”. Baldwin aveva da poco pubblicato “Un altro mondo”: «Il nostro incontro è nitido così come nitida l’impressione straordinaria che ebbi», racconta Pezzana: «Ci siamo riconosciuti da subito. Mi chiese se ero omosessuale, gli risposi: “Certamente. Il nome della libreria non è casuale. Hellas, per ricordare l’omosessualità della Grecia antica”. Era molto felice. Parlammo un po’ di tutto come due vecchi amici che si ritrovano: relazioni, amanti, compagni. Vivevo alla luce la mia omosessualità. Lui mi ha raccontato momenti in cui per questo ha rischiato molto. Mi raccontò in un giorno tutta la sua vita, da quando aveva sedici anni. Deluso e arrabbiato da Malcolm X e da chi nella comunità nera lo aveva messo ai margini dopo la pubblicazione di quel libro meraviglioso che è “La Stanza di Giovanni”. Si sentiva fuori posto. Un po’ come noi tutti. La nostra sintonia forse partiva da qui».

 

Verso la fine degli anni ’60, come scrisse Henry Louis Gates Jr. in un saggio del 1992, «l’attacco a Baldwin era quasi un rito di iniziazione» per una nuova generazione di intellettuali neri. L’omofobia era il collante di questi attacchi. In “Soul on Ice", il libro di memorie di Eldridge Cleaver, attivista delle Black Panther grondava di odio verso Baldwin e raccontava gli «omosessuali negri» come «frustrati perché nella loro malattia non sono in grado di avere un bambino da un uomo bianco». Dentro questo clima Baldwin forgiava il suo pensiero.

 

Nato ad Harlem nel 1924 durante il suo rinascimento intellettuale, sociale e artistico, periodo che lasciò il posto all’arte nera di tutti i tipi e coincise con la Grande Depressione. Incontrò il pittore Beauford Delaney, «prima prova vivente che un uomo di colore poteva essere un artista». La scrittura divenne l’arte di Baldwin e la sua prima opera apparve su The Nation nel 1947. Quando la sua prima raccolta di saggi, “Notes of a Native Son”, debuttò a metà degli anni ’50, era già noto per i suoi commenti letterari e culturali. Il suo secondo romanzo, “La stanza di Giovanni”, ebbe l’effetto deflagrante di una bomba. Pubblicato prima all’estero, solo più tardi in America. Baldwin attraversa la passione tra due uomini, fotogrammi che entreranno indelebili nella retina di generazioni. Per lui il libro non parlava «tanto di omosessualità, ma di ciò che succede quando hai talmente tanta paura di finire con non l’essere più in grado di amare nessuno». La stanza che diventa un paradiso e poi un abisso. Parigi dove ci si perde e per questo ci si scopre, per poi perdersi di nuovo. Funziona sempre così. C’è sempre una luce a segnalare quanto sia fitta l’ombra. Intanto, fuori dalla stanza, sebbene il Civil Rights Act fosse stato approvato da meno di un decennio in America la supremazia bianca imperava, la segregazione era ben presente e la droga invadeva le strade. Baldwin capì che la lotta non era finita. Scrisse parole incendiarie ancora oggi. Intersezionale anti-litteram (il termine non era ancora stato coniato da Kimberlé Crensha), riuscì a collegare l’omosessualità alla blackness, lotte di comunità ritenute agli opposti. Della singola identità imposta non era interessato, si concentrava sui sistemi che producevano l’oppressione. Tra le sue battute: «Finché pensi di essere bianco, sarò costretto a pensare di essere nero». Dichiarò «insofferenza» nei confronti della parola “gay”, suggerendo che il termine rispondesse a una falsa argomentazione secondo cui le persone omosessuali dovevano dimostrare la propria umanità. In sintesi diceva: mi oppongo alle etichette che arrivano da altri perché io non sono alla periferia ma al centro della mia vita e il mondo deve reagire a questa centralità. Non sono le differenze esistenti tra le persone il problema ma le valutazioni a esse associate. Dietro i fenomeni di razzismo, sessismo, discriminazione di persone disabili, omotransfobia ci sono meccanismi e schemi in cui tutti viviamo e che influenzano la nostra percezione della realtà. Per capire perché questo avviene, bisogna comprendere che la vita è multiforme.

 

 

Vale ancora oggi: i diritti delle persone trans, l’immigrazione, l’insicurezza abitativa. Tutte le forma di discriminazione e diseguaglianza si rafforzano a vicenda. Baldwin sapeva che per la libertà era necessaria una coalizione costruita su «solide basi» che vanno oltre la sola identità e «basata sui motivi della dignità umana».

 

Le persone in tutto il mondo continuano a rivisitare il suo lavoro perché ci troviamo di fronte alla grande domanda: come si fa ad allargare lo sguardo contro questo mondo che ci si sta stringendo addosso. Gli scritti di Baldwin sono l’eredità e forse la guida per i movimenti sociali contemporanei.

 

«Quando cerchiamo di alzarci per guardare il mondo in faccia come se si avesse il diritto di essere lì, si sta attaccando l’intera struttura di potere del mondo occidentale». Come farsi spazio e avere voce, la lezione per le comunità nere, lgbt, disabili. «La radice dell’odio del nero è la rabbia non l’odio verso i bianchi. I neri chiedono che i bianchi stiano alla larga. La radice dell’odio del bianco è invece il terrore. Un terrore profondo, insostenibile si riflette in una immagine spaventosa prodotta dalla sua mente». La rabbia degli uomini bianchi e eterosessuali si scatena quando viene chiesto loro di condividere privilegi con tutti gli altri, il che include l’essere ritenuti responsabili delle proprie azioni. La parola privilegio scatena ancora oggi in molte persone difese e resistenze. Viene frainteso come prova che non hanno dovuto affrontare alcuna difficoltà nella vita. Proprio sulla necessità di rendere visibile l’oppressione e riconosciuta da parte delle persone che traggono vantaggio è passato alla storia lo scontro tra Baldwin e William Faulkner. Nel 1954 la Corte Suprema degli Stati Uniti aveva emesso la sua storica sentenza contro la segregazione nelle scuole. Faulkner sostenne la necessità di “andarci piano” nello smantellarla. In un vibrante articolo (intitolato “Faulkner and desegregation”) Baldwin gli rispose scrivendo una delle sue invettive più potenti, attuale ancora oggi, facendo riferimento al significato della parola cambiamento e alle reazioni che provoca. «È solo quando si riesce a rinunciare a un privilegio che si è liberi».