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Fatima e suo figlio, fuggiti da Gaza e arrivati in Italia grazie alla solidarietà

L'esplosione di un bollitore durante gli attacchi israeliani ha causato ustioni al bambino di pochi mesi. Per ricevere le cure sono arrivati fino in Italia con i corridoi umanitari aperti dalle associazioni. «A Gaza è tutto rosso per il sangue e nero per il fumo»

Quante volte ognuno di noi ha usato un bollitore. Un’azione quotidiana, che facciamo meccanicamente. La stessa azione che, il 5 gennaio 2024, ha decretato la fine della vita di prima e l’inizio di una nuova per Fatima e per suo figlio Karim.

 

Fatima ha 24 anni ed è una designer. Fatima è palestinese. Quel 5 gennaio si trovava a Gaza, quando terra e cielo hanno iniziato a tremare. Della casa che stava accanto alla sua non resta più nulla. Lo scoppio è stato così forte da far sobbalzare tutto, anche il bollitore. Si è frantumato addosso a Karim, procurandogli sul volto e sul corpo ustioni di quarto grado. «Dal 7 ottobre scorso, alle 6 di mattina, la nostra vita è cambiata. I bombardamenti sono stati continui, ma mai così vicini. Ci nascondevamo lontano dalle finestre o sotto le scale. L’ultima volta, però, non abbiamo fatto in tempo. Intorno a noi è crollato tutto e sembrava che anche casa nostra stesse venendo giù da un momento all’altro».

 

Karim, che oggi ha 18 mesi ed è ospite assieme alla mamma della Fondazione “Protettorato di San Giuseppe” a Roma, si è ferito proprio durante quel bombardamento di gennaio. È stato portato all’ospedale, ma a Gaza gli ospedali non possono essere più chiamati tali. Le strutture sono ammaccate o rase al suolo, non ci sono medicinali e personale specializzato. «In ospedale manca tutto, si cerca di usare solo il necessario». Quello che c’è deve bastare, ma la verità è che non basta mai perché le strutture sono sovraccariche di feriti più o meno gravi. Ormai Gaza è come una prigione a cielo aperto. Fatima dice che è tutto rosso per il sangue e nero per il fumo. I sostegni sono ridotti all’osso e ormai arrivano pochissime scorte di cibo, lanciate come a sfamare un branco di randagi. Karim è stato ricoverato per pochi giorni a Gaza, poi è stato trasferito in Egitto dove è rimasto per due settimane. La madre non ricorda il nome dell’organizzazione umanitaria che li ha aiutati, ma dice di avere conosciuto i volontari in ospedale, tra le macerie: «Girano tra i giacigli di fortuna alla ricerca di bambini da portare in salvo con le loro mamme».

 

Passare la frontiera è concesso a donne e bambini feriti, non gravi, per un brutale calcolo delle probabilità di sopravvivenza. «Nel Paese non si può entrare e da lì non si può uscire». Uscire significherebbe salvarsi e questo non è previsto. «Esiste un’agenzia egiziana che si occupa del trasporto. Prima chiedevano 5.000 euro a persona, oggi 11.000». Anche inviare il denaro non è semplice, soprattutto se non si hanno parenti che possono ricevere i fondi. Le transazioni vengono bloccate con il timore che vadano ad accrescere le casse di Hamas. «Passata la frontiera, sapevo che saremmo stati in salvo, ma sapevo anche che non sarei mai più tornata a casa mia. È stato il momento più difficile. Ormai a Gaza non c’è più niente e non si può ricostruire tutto da zero». Restano solo gli affetti e il ricordo di quello che si è perso.

 

Con un aereo militare Fatima e il figlio sono atterrati a Roma il 9 febbraio, grazie ai pochi corridoi umanitari aperti da organizzazioni come Caritas Italiana, Comunità di Sant’Egidio, Federazione delle Chiese Evangeliche in Italia e Arci. «Eravamo nove mamme con figli minori. Nessuna capiva o parlava italiano». All’aeroporto, ad aspettarli, c’erano rappresentanti di Sant’Egidio che li hanno accompagnati immediatamente all’Ospedale pediatrico Bambino Gesù per offrire al piccolo le cure necessarie. Il lavoro della rete e l’impegno della Fondazione “Protettorato di San Giuseppe” hanno permesso ai due di avere una stanza in una delle case famiglia, “Il Giardino di Pace”, che ospita mamme con figli minori. «Siamo davvero grati alla Fondazione per averci accolti, qui con loro stiamo benissimo e Karim è felice». Eppure, nella voce di Fatima e nei suoi occhi scuri, nascosti da grandi occhiali da vista, si percepiscono la tristezza e la preoccupazione di chi è dovuto scappare. «Abbiamo perso parenti e amici. Ho paura per la mia famiglia, non la vedo dallo scoppio della guerra e riesco a sentirla a malapena, perché non c’è Internet». È, però, in quegli stessi occhi che si riflette un obiettivo: proteggere il suo bambino e pensare al domani. «Ora devo lasciare l’Italia e raggiungere mio marito negli Emirati Arabi. Non posso tornare indietro, ma devo occuparmi del futuro di Karim».

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