Peterson Sonyah aveva sedici anni all’epoca. Con la sua famiglia aveva raggiunto la chiesa luterana di St. Peter di Monrovia perché lì, agli oltre duemila rifugiati, si diceva non sarebbe successo niente. Per un po’ la Croce Rossa riuscì a portare acqua e cibo, ma quando la guerra arrivò alla capitale ci si dovette arrangiare. Si cominciò a uscire a turno per fare scorta, raccattare pentole, legna per cuocere. C’era chi tornava e chi non tornava più. Fino all’esplodere della guerra, Peterson aveva passato tutta la sua vita a Monrovia, nella capitale che fino ad allora aveva visto decine di presidenti non autoctoni susseguirsi ininterrottamente per oltre un secolo; vale a dire fino al 1980, quando Samuel Doe, ex sergente ventottenne, si impose al potere con un colpo di Stato diventando il primo presidente indigeno della storia liberiana. Nove anni dopo, Charles Taylor, leader del Fronte patriottico della Liberia, avrebbe poi guidato una ribellione per rovesciare il suo regime militare dando inizio alla prima fase della guerra civile.
La sera del 29 luglio del 1990, le armate di Samuel Doe sfondarono le porte della chiesa dove Peterson stava ormai da un mese. Sua madre si salvò per i pochi dollari che aveva con sé, chi non aveva niente da dare finiva stuprata e uccisa. Quando andarono dagli uomini, Peterson se ne stette sdraiato in un lago di sangue facendo credere avessero finito anche lui. Era l’alba quando se ne andarono. Suo padre e altri sei suoi familiari furono uccisi, e con loro più di seicento persone quella notte. «Non ho mai cercato vendetta. I ribelli mi proposero di unirmi alle loro truppe di bambini soldato, per vendicare la mia famiglia. Ma io non cercavo violenza. Da quel momento ho solo cercato pace e giustizia». Peterson racconta la sua storia seduto nel suo ufficio, dove le strade secondarie della capitale si fanno rosse e polverose. Indossa una lunga tunica rossa e gialla, due occhi imbevuti di buoni sentimenti. «Nel 2009 – racconta – ho fondato questa Ong, Liberia Massacre Survivors Association, per promuovere i diritti dei sopravvissuti e spingere per un tribunale che perseguisse gli autori dei crimini».
Prince Johnson, leader ribelle di etnia Gio, uno dei gruppi etnici più perseguitati dal regime di Samuel Doe, fu uno dei più sanguinari. Accusato di crimini di guerra e contro l’umanità, Johnson è morto lo scorso novembre, impunito, dopo una carriera di senatore lunga vent’anni. Finita la guerra, divenne leader religioso, educatore, kingmaker, innestando una cultura di “pace negativa”, come direbbe l’accademico liberiano Aaron Weah, e la minaccia di un nuovo conflitto per far sì che i governi precedenti non creassero un tribunale nel Paese. Per molti Gio come lui, e non solo, Johnson divenne, e lo è anche oggi da morto, l’eroe ribelle che uccise Samuel Doe per difendere la sua gente; era il godfather, il padrino. La folla di sostenitori ai suoi funerali era composta da quei liberiani, distinti dal resto del popolo. C’è infatti un’altra porzione, che costituisce la maggioranza in Liberia, che da oltre vent’anni cerca solo giustizia. Peterson, anche lui Gio, è uno di questi. A più di vent’anni dalla fine dei conflitti che tra il 1989 e il 2003 portarono a circa 250.000 morti, a maggio dell’anno scorso l’attuale presidente Joseph Boakai ha firmato un ordine esecutivo per dimostrare il suo impegno nell’istituire una corte speciale. Il direttore di Civitas Maxima, Alain Werner, però, è dall’altra parte del telefono, deluso. Negli ultimi dieci anni l’organizzazione non governativa con base a Ginevra che da tempo documenta genocidi, crimini di guerra e contro l’umanità, ha lavorato con i partner liberiani affinché alcuni sopravvissuti potessero avere giustizia almeno all’estero. «In Europa e Stati Uniti abbiamo collaborato a sei diversi processi legati ai crimini commessi durante i conflitti e spinto per la creazione di una corte speciale in loco. Abbiamo raccolto informazioni, parlato con vittime, ma non vediamo una reale volontà politica né un piano d’azione. I sopravvissuti stanno morendo o sono già morti».
Werner ricorda come il presidente Boakai avesse inizialmente messo a capo dell'Ufficio per l'istituzione del tribunale l'avvocato della moglie di Charles Taylor, ex leader ribelle poi condannato in Sierra Leone a 50 anni di reclusione. Dopo essere stato accusato di minare l'imparzialità del processo, Boakai ne ha poi nominato un altro che alla stampa locale lamenta scarso impegno finanziario da parte del governo, ritardo nell'erogazione dei fondi e mancanza di misure per la sua sicurezza.
Secondo gli ultimi dati di Afrobarometer, sebbene nel 2022 il 60 per cento dei liberiani preferisse dimenticare i crimini commessi durante la guerra, il 70 per cento credeva fosse importante che il governo istituisse un tribunale. L’anno scorso quest’ultima percentuale ha quasi toccato l’80 per cento. Werner però ha forti dubbi. Ci sono ostacoli politici, sfide legali, mancanza di risorse finanziarie, e soprattutto una completa mancanza di leadership come problema di base. Il governo liberiano, che l’anno scorso ha stanziato 500.000 dollari, quest’anno ridotti a circa 300.000, ha da subito cercato supporto finanziario dai donatori internazionali, primi fra tutti gli Stati Uniti. «Hanno detto di voler arrivare a 100 milioni, ma bene che vada – avverte Werner – riusciranno a racimolarne solo qualcuno. Come si può sperare in finanziamenti esteri se il principale interessato non mostra un reale impegno? E poi gli Stati Uniti non sono più quelli dell’anno scorso quando la maggioranza in Senato era fatta di democratici e di chi spingeva per aiutare la Liberia con il suo tribunale».
Nel caso della Liberia, dai 110 milioni di dollari in aiuti forniti nel 2024, compresi quelli alle organizzazioni per i diritti umani che lavorano per rendere giustizia alle vittime di guerra, con lo smantellamento dell’Agenzia statunitense per lo sviluppo internazionale (Usaid), l’amministrazione Trump è passata ad azzerare quasi totalmente le sovvenzioni esistenti. Werner pensa che con il clima attuale sia improbabile che continueranno a sostenere la Liberia nella creazione della corte.
Intanto, il governo lo scorso anno avrebbe anche contribuito con quasi 340.000 dollari ai funerali di Prince Johnson, e ha dichiarato di voler dare una degna sepoltura all’ex presidente Doe, responsabile del massacro alla chiesa di St. Peter, come simbolo di riconciliazione e pace. «Molte delle vittime di quel massacro restano seppellite in fosse comuni sotto il campo da basket nel cortile della chiesa», ricorda Peterson. «Da anni chiediamo di riesumarle e seppellirle altrove», ma i corpi dopo vent’anni non li ha ancora spostati nessuno.
Peterson, nonostante tutto, pensa che alla fine ce la si farà, non può credere che esista un altro scenario. «Il tribunale verrà istituito, con o senza i fondi esteri», dice con voce ferma. Dice poi che l’unica minaccia ricevuta in tutta la sua vita gli è arrivata da Prince Johnson. «Mi chiamò nel suo ufficio, tanti anni fa, e mi disse che quest’associazione sui sopravvissuti di cui parlavo in radio non era cosa giusta da fare. Che avrei provocato scompiglio. Era stato autore di barbarie, normale non gli andassi a genio. Ma non ho ceduto al ricatto. E soprattutto, non ho mai avuto dubbi su quello che faccio». L’ordine esecutivo del presidente per istituire la Corte sugli orrori della guerra civile resta lettera morta. Ma c’è chi crede sia ancora possibile fare i conti con il passato per pacificare il Paese