Mondo
23 luglio, 2025Una rete di telecamere, anche private, per il riconoscimento facciale, l’uso massiccio di Ia per contestare i reati. Contro le proteste, il governo ha un alleato: l’algoritmo
Per qualche ora, Onur (nome di fantasia) aveva creduto di essere tornato libero. Si trovava nel palazzo di giustizia di Cağlayan, a Istanbul, dopo tre giorni trascorsi in una cella della polizia antiterrorismo - sovraffollata, senza finestre, illuminata giorno e notte da neon accecanti. In quel luogo claustrofobico, il giovane - un ventenne alto, dal volto emaciato - aveva perso del tutto la cognizione del tempo. Tanto da non saper dire se quella breve parentesi al tribunale, dove era stato successivamente tradotto, fosse durata due o quattro ore. «La cella in sé è una tortura», racconta Onur dei tre giorni trascorsi nel reparto antiterrorismo. Ricorda un rumore di fondo incessante, il sistema di ventilazione guasto, l’olezzo di escrementi e gli insetti ovunque. «Il tempo non passava. Non c’era niente da fare, se non parlare fra di noi. Non ci davano cibo adeguato e, per molto tempo, non ci hanno portato neppure l’acqua. Non so per quanto, non c’era un orologio».
Durante il trasferimento dalla centrale di polizia, un agente lo aveva rassicurato che il suo fascicolo, - come quello di decine di altri giovani trattenuti per aver partecipato alle manifestazioni contro l’arresto del sindaco di Istanbul, Ekrem Imamoğlu – non conteneva prove sufficienti a giustificare la detenzione cautelare. L’unica “prova” contro Onur era una fotografia che lo ritraeva in piedi fra i manifestanti, un volto fra tanti. Alle proteste, iniziate dopo l’arresto del sindaco per corruzione il 19 marzo, Onur si era mosso con estrema cautela. Già attivista in gruppi di sinistra, era consapevole di quali sarebbero potuti essere i possibili capi di imputazione: resistenza a pubblico ufficiale, sostegno a un gruppo terroristico, possesso di un’arma (anche una semplice pietra), travisamento o vilipendio al presidente. Perciò non aveva fatto nulla per distinguersi. Infatti quel giorno a Cağlayan, il nome di Onur non figurava fra i tredici arresti confermati immediatamente, ma rientrava negli 85 - per lo più studenti universitari giovanissimi, protagonisti delle proteste - ai quali vennero restituite le carte d’identità.
Stavano appena raccogliendo i loro effetti personali quando fu ordinato loro di aspettare. Quel giorno al palazzo di giustizia c’era anche Yağmur Kavak, una giovane avvocata dagli occhi grandi e il sorriso vivace. Nell’ufficio del pubblico ministero, racconta a L’Espresso, assistette a uno dei momenti più surreali della sua carriera: un assistente incaricato della documentazione teneva in mano l’elenco degli imputati destinati ad essere rilasciati sotto controllo giudiziario, con obbligo di firma o divieto di espatrio. «Poi, il pubblico ministero ha cambiato idea e ha deciso che avrebbero dovuto apparire di fronte al giudice», spiega Kavak, membro del consiglio dell’Associazione degli Avvocati Progressisti di Istanbul (CHD). «Non era mai successo prima: quando c'è un elenco e viene presa una decisione, ci si aspetta che quelle persone vengano effettivamente rilasciate». E invece, Onur avrebbe passato i successivi venti giorni al carcere di Silivri, lo stesso dove è rinchiuso il sindaco Imamoğlu, in attesa del processo. Avrebbe fatto ritorno a Cağlayan a fine aprile, assieme a 189 imputati chiamati a testimoniare in due processi separati. Secondo un’analisi di Human Rights Watch, 107 di loro, fra cui sette giornalisti, sono accusati semplicemente di aver partecipato a una manifestazione non autorizzata. La prova principale contro di loro è una fotografia che li ritrae tra la folla. Decine di pagine di rapporti di polizia e fascicoli individuali ottenuti da L’Espresso mostrano oltre un centinaio di giovani e manifestanti ritratti in circostanze simili a Onur: la stragrande maggioranza semplicemente in piedi tra la folla, alcuni con mascherine chirurgiche che coprono naso e bocca - citate negli atti di accusa come “prova” di un ulteriore reato, nonostante fossero spesso utilizzate come protezione dai gas irritanti della polizia.
«Quello che colpisce di più in questi casi è vedere persone finite in custodia cautelare senza alcuna prova che abbiano opposto resistenza violenta alla polizia», afferma Emma Sinclair-Webb, direttrice associata di Human Rights Watch. «La custodia cautelare dovrebbe essere una misura eccezionale, applicata solo quando c’è il rischio di fuga o di inquinamento delle prove. Eppure, nella maggior parte dei casi, le persone non sono accusate di porto d'armi, né di essersi coperti il volto, ma semplicemente di trovarsi lì». L’ufficio del Procuratore capo di Istanbul riferisce che, delle quasi 2 mila persone arrestate durante le proteste di marzo, 819 risultano indagate in 20 diversi procedimenti. Circa 240 sono finite in custodia cautelare in carcere per settimane. Secondo numerosi resoconti dei giorni di protesta, la polizia spesso accerchiava i manifestanti ordinando loro di scoprirsi il volto prima di lasciarli andare. Anche quando il ronzio dei droni veniva coperto dai cori e dagli slogan, tutti erano ben consapevoli della loro presenza - così come delle telecamere montate sui blindati e sui veicoli della polizia, e di altri dispositivi di sorveglianza manovrati da agenti incaricati di monitorare la folla Bandi di gara analizzati da L’Espresso mostrano che, nei mesi precedenti e successivi alle proteste, la Turchia ha investito pesantemente in tecnologie di riconoscimento facciale.
A fine anno, la polizia ha acquistato attrezzature da distribuire in 30 province: 3.500 telecamere, 200 switch di rete per collegare i dispositivi sul campo e 278 server di due tipi - probabilmente destinati all’elaborazione sia locale che centralizzata - per un valore complessivo di 73,2 milioni di lire turche (circa 2,6 milioni di dollari all’epoca). Nel maggio 2025, un ulteriore contratto da 5,7 milioni di lire (148.000 dollari) è stato assegnato per attrezzature destinate al Quartier Generale della Polizia di Istanbul. Solo un giorno prima dell’arresto di Imamoğlu, il 18 marzo, è stato pubblicato un nuovo bando per 13.000 telecamere e sistemi con specifiche simili. Un’espansione massiccia dell’infrastruttura di sorveglianza alimentata dall’intelligenza artificiale. Una fotografia ottenuta da L'Espresso mostra un agente che maneggia una telecamera Hikvision di fabbricazione cinese durante un rally dell'opposizione a Istanbul il 29 marzo. Un modello di telecamera simile è menzionato in un altro bando di gara del ministero dell'interno datato marzo 2025 - ed è in grado di rilevare fino a 120 volti contemporaneamente. Sebbene ciò suggerisca che il governo stia utilizzando attivamente tale tecnologia di sorveglianza, non c'è trasparenza sulla sua applicazione.
Hikvision è fra le aziende cinesi messe in lista nera dal governo degli Stati Uniti per motivi di sicurezza nazionale. L'Unione europea, invece, le considera tecnologia “a rischio”, ma molti paesi ne fanno ampiamente uso. La Turchia non nasconde le proprie ambizioni nell’uso dell’intelligenza artificiale per fini di sicurezza. Lo scorso anno, il ministro dell’Interno ha annunciato che, entro la fine del 2025, tutti gli agenti di polizia saranno dotati di bodycam con tecnologia di riconoscimento facciale. Ha inoltre promesso un ampliamento del sistema KYGS, la piattaforma nazionale di sorveglianza urbana e sicurezza pubblica attiva in tutte le principali città, anche attraverso l’integrazione di telecamere appartenenti a privati. Il sistema nazionale di dati biometrici è stato ufficialmente lanciato nel 2022, mentre l’infrastruttura centralizzata di e-government consente allo Stato di raccogliere e incrociare un’enorme quantità di dati su ogni cittadino e residente. Il governo turco non è certo l’unico ad aver adottato questo tipo di tecnologia, che alcuni Stati stanno cercando di regolamentare – ne è esempio il recente AI Act dell’Unione europea, pur criticato per la sua debolezza.
E non è neppure l’unico a impiegarla in modi controversi. In Ungheria, dove il governo di Viktor Orbán ha introdotto un emendamento costituzionale che riconosce solo due sessi biologici, la polizia può utilizzare il riconoscimento facciale per identificare e multare i partecipanti alle proteste LGBTQI. «Alcune leggi esistenti offrono una protezione solo parziale», spiega Vahit Bicak, avvocato ed ex docente all’Accademia Nazionale di Polizia, dove ha formato agenti per oltre trent’anni. Si tratta, ad esempio, di articoli costituzionali che garantiscono il diritto alla privacy, a un processo equo e vietano l’uso in tribunale di prove ottenute illegalmente. Esiste anche una legge sulla protezione dei dati personali, che però prevede ampie eccezioni per motivi di sicurezza nazionale e prevenzione della criminalità. «Se queste eccezioni non vengono interpretate in modo restrittivo e sottoposte a un controllo rigoroso, aprono la porta a una sorveglianza incontrollata e all’abuso dei dati», avverte Bicak.
Ciò che colpisce Gulizar Tuncer, avvocata per i diritti umani, è la scarsa attenzione con cui le autorità hanno cercato di collegare i manifestanti a un’organizzazione, come invece avviene di solito. «Le perquisizioni domiciliari, rispetto ad altre operazioni, sono state piuttosto superficiali», racconta Tuncer, il cui figlio Jana è stato arrestato durante un blitz mattutino nella prima settimana di proteste. Come Onur, anche lui ha trascorso circa venti giorni nel carcere di Silivri, “incastrato” da una fotografia. «Quando la polizia è venuta a casa nostra, non ha sequestrato telefoni né controllato i computeri», racconta a L’Espresso. «Perché lo scopo non è trovare prove di un crimine. Lo scopo è intimidire. In Turchia, oggi, camminare è diventato un reato». In aula a Cağlayan, gli avvocati sottolineano come le prove contro gli imputati siano state raccolte in modo irregolare e non trasparente, e siano prive di fondamento. Crescono gli interrogativi sulla natura di un'agenzia identificata come “V” in diversi atti d’accusa e altri documenti ufficiali esaminati da L’Espresso, che avrebbe collaborato con le forze dell’ordine per ottenere gli indirizzi delle persone indagate.
La Polizia Nazionale turca e il Ministero della Giustizia non hanno risposto alle richieste di chiarimento inviate da L’Espresso. «Quelle fotografie non possono essere considerate prove legalmente ammissibili», afferma Hurrem Sönmez, segretaria generale dell’Ordine degli Avvocati di Istanbul. Spiega che le immagini e le registrazioni effettuate dalla polizia - chiaramente identificabili come tali - durante manifestazioni e cortei, «possono essere usate solo per identificare i sospetti e raccogliere prove di reati». In questo caso, invece, sembrano essere servite a selezionare e punire arbitrariamente alcuni manifestanti. Balim Idil Deniz, avvocata dell’associazione CHD, sottolinea che le fotografie sono state concretamente utilizzate durante gli interrogatori per ottenere ammissioni. «Da dove provengono queste informazioni? Come sono state raccolte?», si chiede. «È un trucco: se l’interrogato reagisce alla foto, quella reazione viene interpretata come una dichiarazione e trasformata in prova». Il caos si riflette nella tensione palpabile in aula. All’inizio delle udienze, gli avvocati contestano la legittimità del tribunale a giudicare il caso. Quando il giudice si rifiuta di ascoltarli, l’aula esplode in un coro che rimbomba nei corridoi sterili del palazzo di giustizia: “Non c’è liberazione singolarmente: o insieme, o nessuno”.
È uno degli slogan simbolo della protesta, che richiama i principi di solidarietà e responsabilità collettiva. Parole che si scontrano con la logica distorta della punizione individuale per presunte violazioni collettive, attribuite da un algoritmo, in qualsiasi momento, e senza un esame reale delle prove. Un cortocircuito che riflette la deriva di un sistema giudiziario da tempo piegato al potere autoritario. «L’intelligenza artificiale non è solo uno strumento: riflette i valori che decidiamo di codificarvi», osserva il giurista Vahit Bicak. «Servono garanzie legali solide, per assicurarsi che l’IA sia al servizio della giustizia - non che la sostituisca, la minacci o, peggio, ne automatizzi l’erosione».
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