Il nuovo capo Xi Jinping non decide da solo. E la composizione dei nuovi organi dirigenti non fa ben sperare

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La Cina è certamente cambiata molto, dopo la morte del dispotico presidente Mao Zedong, nel 1976. Da allora sono trascorsi 36 anni, durante i quali abbiamo assistito alla trasformazione di una società agricola arretrata in una superpotenza commerciale. Ovvero al passaggio da un paese chiuso, che ingabbiava di fatto 800 milioni di abitanti, a uno che non solo esporta ogni anno beni per un valore pari a 2 mila miliardi di dollari, ma invia all'estero anche decine di milioni di turisti.

PER CERTI ASPETTI TUTTAVIA nulla è cambiato. Il suo sistema politico rimane sempre di stampo leninista. Solo in apparenza è un paese diverso, ma nella sostanza resta essenzialmente uno Stato totalitario, come abbiamo potuto constatare, ancora una volta, il mese scorso, quando il Partito comunista ha completato il terzo passaggio dei poteri dopo il 1976. Questa transizione presenta molte anomalie, quali ad esempio il suo alone di segretezza e la recondita influenza che ancora esercitano i dirigenti usciti di scena. Ma ciò che più colpisce è, senza dubbio, il fatto che un popolo di un miliardo e 300 milioni di abitanti non abbia avuto alcun peso nella scelta dei suoi leader. L'intero processo di selezione è stato infatti contraddistinto da mercanteggiamenti all'interno di una ristretta élite.

Come previsto Xi Jinping, già predestinato ad assumere la guida del paese cinque anni fa, ha assunto formalmente l'incarico di segretario generale svolto fino a quel momento da Hu Jintao, che ha dovuto ritirarsi in base alla regola non scritta del partito che stabilisce un limite di due mandati. Ma, cosa ancor più importante, Hu ha lasciato anche il posto di comandante supremo delle forze armate, diversamente dai suoi predecessori che lo avevano mantenuto per altri due anni dopo la scadenza del mandato. E questo permetterà a Xi di consolidare più rapidamente il suo potere.

Ma Xi non sarà un altro Mao. Il partito oggi pratica la "leadership collettiva". Le decisioni politiche più importanti vengono prese collegialmente da un organismo speciale, il Comitato permanente del Politburo, per cui Xi dovrà formare una coalizione al vertice della gerarchia del partito, anche se questo sarà per lui un compito meno arduo, poiché il comitato è oggi composto da sette membri e non più da nove, come all'epoca di Hu, che doveva vedersela con otto colleghi, di cui uno solo era suo alleato.

SAPPIAMO POCO sul programma politico di Xi, un uomo prudente che ha mantenuto per anni un basso profilo. Qualsiasi speranza che potrà far evolvere il partito in una direzione più liberale, è stata infranta dalla composizione del Comitato permanente. Tre degli altri sei membri sono conservatori, recalcitranti al cambiamento politico: uomini vicini all'ex presidente Jiang Zemin, che ha oggi 86 anni, e pur se favorevole alle riforme economiche sembra fermamente contrario alla democrazia. Nonostante si sia ritirato, Hu continua a esercitare un'influenza essendo riuscito a piazzare almeno sette o otto dei suoi sostenitori nel Politburo (costituito da 25 membri), che è il secondo organo decisionale più importante del partito.

Le difficoltà che Xi deve affrontare sono ben visibili. Il suo potere sarà probabilmente limitato, ma i compiti che ha ereditato sono spaventosi. L'economia, fino a ieri in rapida espansione, sta rallentando sensibilmente il passo. Senza riforme strutturali, liberalizzazioni finanziarie, riforme fiscali e deregolamentazioni il tasso di crescita della Cina si ridurrà ulteriormente.

Il suo immediato predecessore, Hu Jintao, è stato fortunato. L'ingresso della Cina nell'Organizzazione Mondiale del Commercio (Wto) nel 2001, in coincidenza con la bolla del credito in Occidente, ha dato un grande impulso alla sua economia orientata verso le esportazioni. Inoltre, la sua popolazione relativamente giovane e le riforme attuate negli anni Novanta, hanno consentito a Hu di procedere per inerzia senza attuare alcuna riforma, col risultato che il progresso verso un'economia di mercato ha subìto un'inversione di tendenza. Lo Stato è diventato troppo potente, il clima politico si è fatto sempre più pesante e la corruzione si è aggravata.

IL RILANCIO DELL'ECONOMIA cinese dovrebbe essere la priorità principale di Xi, che sa fin troppo che il partito non può sopravvivere senza dimostrare un'adeguata capacità di iniziativa in questo campo, oggi molto più problematica. Negli ultimi trent'anni, la Cina ha potuto sostenere la sua crescita grazie a una manodopera a buon mercato, agli investimenti di capitale e al facile accesso ai mercati internazionali. Nei prossimi anni, dovrà invece puntare molto di più sulla produttività e l'innovazione.
Ma un sistema politico leninista chiuso e repressivo, che si affida a burocrati retrivi e avversi al rischio per assicurare la sua sopravvivenza, è palesemente inadatto a promuovere una crescita basata sull'innovazione. Ben presto, Xi scoprirà che la sua vera priorità politica è la riforma del regime attuale. Solo ridando voce al popolo cinese potrà infatti contrastare l'opposizione alle riforme economiche espressa dalle forze conservatrici del partito. Ma questa, purtroppo, è un'opzione abbastanza rischiosa che ancora non s'intravvede all'orizzonte.