La protesta turca è diversa da quelle avvenute nei Paesi arabi. Perché a Istanbul c'è la democrazia, non la dittatura. E quindi siamo costretti a riflettere sulle diverse declinazioni di questa parola (versione integrale)

Il 31 maggio una cinquantina di persone si riuniscono a Istanbul, in piazza Taksim, per dimostrare contro la costruzione di una "Las Vegas di ottomano splendore" al posto di uno degli ultimi parchi pubblici in una città che ospita 14 milioni di abitanti. La polizia reagisce come nessuno si sarebbe aspettato, con cannoni ad acqua e lacrimogeni. Abbiamo poi scoperto che nell'acqua per gli idranti la polizia aggiunge Jenix, un liquido urticante che, a contatto con la pelle, la irrita sino a piagarla; la polizia arresta i medici che prestano soccorso ai manifestanti e gli avvocati che li difendono, e ad Ankara blocca il funerale di Ethem Sarisuluk, il manifestante ucciso da un agente che, il primo giugno, ha sparato contro la folla. Leggiamo notizie che non ci sembrano descrivere un paese democratico e spesso le leggiamo sulle uniche piattaforme che immediatamente hanno fatto informazione in tempo reale: i social network. Una ricerca condotta dalla New York University ha dimostrato che in otto ore ci sono stati 2 milioni di tweet con l'hashtag #occupygezi, questo significa che Twitter è stata la maggiore piattaforma per informazioni diffuse senza censura.

Con la violenza della polizia ha fatto il paio l'arroganza di Erdogan che, a pochi giorni dall'inizio della protesta, ha dichiarato: per i progetti del governo «non chiederò l'approvazione dei teppisti». Insultando in questo modo migliaia di manifestanti pacifici che hanno lanciato un messaggio inequivocabile al governo: datevi una regolata, rispettate quel 50 per cento che non vi ha votato e che non può essere ignorato.

Riflettendo su ciò che accade in un Paese dove bere birra o darsi un bacio in pubblico sono diventati gesti di protesta, è facile cadere in semplificazioni. La rivolta turca ha in comune con piazza Tahrir, in Egitto, solo l'essere un evento del tutto inatteso, senza precedenti, senza capi e coordinamento. Una rivolta che non ha leader, ma gode di un ampio consenso, più simile a Occupy Wall Street. La Turchia è stata a lungo un modello per tutto il mondo islamico, una democrazia laica nonostante una popolazione a maggioranza musulmana. Ecco perché i paragoni con la Primavera araba non sono calzanti: quella è iniziata per rovesciare regimi autoritari, dittature. Ma la Turchia è una democrazia e allora il problema sta altrove.

Il ministro degli Esteri, Emma Bonino, citando Alexis de Tocqueville, dice: «In Turchia non c'è una dittatura, ma una dittatura della maggioranza», e questo è un chiaro sintomo di quanto la democrazia turca sia fragile. Erdogan è stato designato presidente per la terza volta dal 2003, e forse il problema è proprio questo: ormai considera la Turchia - è quanto affermano i giornalisti turchi che hanno mantenuto una loro indipendenza dal potere - un proprio giocattolo. Non accetta critiche, minaccia i giornalisti: ad Ankara ha convocato i direttori delle maggiori testate nazionali per spiegare a chi fa informazione quali siano i limiti da non oltrepassare. Ma vincere le elezioni non significa essere proprietario di un paese, non significa poter limitare la libertà di chi non la pensa come il partito al governo. Per noi Erdogan è il "presidente amico di Berlusconi", ma in Turchia ha goduto della stima anche di chi non ha votato per l'Akp. Questa stima se l'era conquistata sul campo. Nel 1977 è stato arrestato, portato in commissariato e torturato per aver partecipato a una manifestazione non autorizzata. Da lui ci si sarebbero aspettate tolleranza e comprensione. Intelligenza. Un capo di Stato che ha saputo limitare il potere dell'esercito, subordinandolo alle autorità civili, ha poi vergognosamente ipotecato la laicità del governo. Un paese che non ascolta i propri cittadini, che non consente loro di riunirsi e manifestare, un paese violento verso chi mostra dissenso, che non vuole essere raccontato se non come il potere ha deciso, è un paese che smette di essere una democrazia e diventa qualcosa di estremamente pericoloso. Ma ora la corrottissima borghesia islamista turca non può più contare sul silenzio che a lungo ha coperto i propri affari. Ora la Turchia è tornata al centro del mondo e non per i meriti della politica, ma per la capacità della sua gente.

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