Ogni giorno ad Ankara la polizia disperde la gente che manifesta da quasi un anno. Una lotta per i diritti che riguarda tutti noi

Dal 20 luglio 2016 in Turchia sono entrati in vigore una serie di decreti, i cosiddetti Khk, che servono sostanzialmente a giustificare atti illegittimi con la scusa della sicurezza del Paese. Dopo il fallito colpo di stato del 15 luglio 2016, Erdo?an ha iniziato una vera e propria “bonifica” dell’amministrazione pubblica, licenziando per effetto dei Khk 150mila dipendenti pubblici di cui molti sono indagati e in carcere. 8.000 gli accademici che hanno perso il lavoro e oltre 2.000 tra scuole, università e dormitori chiusi. Tutto questo costituisce non sono un atto antidemocratico, ma fa temere per il futuro del sistema educativo turco. In Italia sono in pochi a parlare di ciò che sta accadendo in Turchia e i motivi sono sempre gli stessi. Intanto la politica nazionale occupa ogni spazio possibile, lasciando briciole ad altre informazioni e questo ha abituato - come effetto nefasto - gli italiani a sentirsi al centro del mondo e a rispondere a ogni sollecitazione su temi diversi dall’eterna campagna elettorale che ora la necessità è pensare alle “nostre” sorti. Poco o nulla importa che non lontano da noi ci sia un governo che sta facendo strame di democrazia e diritti e che molti cittadini abbiano perso non solo il lavoro, ma anche la libertà. Mariano Giustino per Radio Radicale è tra le voci più attendibili sui fatti turchi. Grazie a lui possiamo avere informazioni precise e di prima mano. Grazie al suo lavoro ci rendiamo conto che la Turchia è vicina, troppo vicina per poterci dire al riparo dall’ondata antidemocratica che ormai da troppo tempo la sta attraversando.

Mariano Giustino racconta cosa accade ogni giorno da 220 giorni in piazza Yüksel ad Ankara, davanti al memoriale dei diritti umani. Quel luogo è diventato il simbolo della lotta di accademici, insegnanti e dipendenti dell’amministrazione pubblica licenziati perché critici nei riguardi di Erdo?an. Ogni mattina e ogni pomeriggio i familiari dei dipendenti pubblici arrestati si incontrano, informano su iniziative nonviolente, leggono le lettere dal carcere dei loro congiunti e ogni volta le forze dell’ordine lanciano al loro indirizzo gas lacrimogeno e proiettili di gomma. Lo scopo è disperderli e fare in modo che i commercianti della zona smettano di solidarizzare con loro. Pare che fino a ora non ci siano riusciti perché chi protesta continua a ricevere tè, sedie e coperte.

In piazza Yüksel si leggono le lettere dal carcere di due detenuti speciali, Nuriye Gülmen (docente universitaria) e Semih Özakça (maestro di scuola elementare) reclusi senza alcun motivo e in sciopero della fame da 100 giorni senza assistenza medica.

Più di sei mesi fa Nuriye e Semih sono stati licenziati e hanno iniziato a protestare perché tutti i dipendenti pubblici che avevano perso il posto, non solo loro, fossero reintegrati. Hanno lanciato lo slogan: “Voglio il mio lavoro” e a causa delle loro legittime proteste sono stati arrestati più di 30 volte fino all’ultima avvenuta il 23 maggio scorso. Nuriye e Semih saranno processati per appartenenza a un organizzazione terroristica, ma di preciso non si sa nulla dei loro presunti reati. Lo scorso 9 marzo hanno iniziato lo sciopero della fame e lo hanno iniziato in condizioni di detenzione disumane. Nuriye e Semih protestano per denunciare la disastrosa condizione degli intellettuali di opposizione in Turchia e perché hanno subito un atto di forza ingiustificato e illegittimo da parte di un governo antidemocratico.

Semih ha 28 anni, è in isolamento, ha perso 22 chili ma è fiducioso, perché nonostante stia rischiando di morire sa di scioperare per la vita. A Nuriye in carcere (oltre a condizioni inumane di detenzione: le celle sono piccole e molto fredde) manca la vitamina B1, fondamentale per chi è in sciopero della fame. Nuriye sta molto male ed è costretta su una sedia a rotelle, ma non interrompe la sua azione nonviolenta. Mariano Giustino intervista la moglie di Semih Özakça, Esra, anche lei licenziata dopo il golpe e anche lei in sciopero della fame. Ascoltate le parole di Esra per capire che ancora oggi, a poca distanza da noi, c’è chi per difendere diritti e democrazia è disposto a morire: «Non abbiamo fame di cibo, ma di giustizia, di legalità e di giustizia. È di questo che i nostri corpi si devono nutrire. Manifestiamo per tutte le vittime dello stato di emergenza. E la nostra vittoria sarà la vittoria di tutti».

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