L’attentato di Ankara e le violenze continue servono sia al governo sia ai curdi estremisti  per mettere in fuorigioco chi cerca il dialogo

Ankara
Una manifestazione per la pace ad Ankara è diventata il teatro del più grande attentato terroristico nella storia della Turchia con oltre cento vittime. La marcia per “il lavoro, la pace e la democrazia” era stata indetta per protesta contro l’ondata di violenza che ha travolto il Paese dopo le elezioni del 7 giugno scorso e che minaccia di farsi più acuta in vista della ripetizione delle elezioni stesse il prossimo 1 novembre. In particolare si teme per la stabilità della regione sudorientale, in prevalenza curda, dove si è riaccesa la paura del terrorismo cieco come ripercussione, in territorio turco, del tracollo della Siria.

La Turchia è costretta a nuove consultazioni solo perché il presidente Tayyip Erdogan non era contento dei risultati del 7 giugno. A complicare il quadro, la fine della tregua tra le forze di sicurezza e il Partito dei Lavoratori del Kurdistan (PKK), che reggeva dall’inizio del 2013.La sospensione delle ostilità era dovuta ai negoziati fra il governo turco e il leader incarcerato del PKK Abdullah Öcalan. Apparentemente il motivo della rottura della tregua era stato l’assassinio di due poliziotti commesso da miliziani del PKK il 22 luglio: un’azione intesa a vendicare un attacco terroristico, costato 34 morti nella città di Suruç, contro un gruppo di attivisti curdi. Incidenti analoghi negli ultimi due anni non avevano provocato alcuna dura reazione da parte del governo. La diversa risposta indica che la spinta ad entrare in guerra era già presente e aspettava solo un pretesto scatenante. Anche il PKK aveva chiaramente utilizzato gli ultimi due anni per rafforzare i suoi dispositivi militari.

Nello stesso giorno dell’assassinio dei due poliziotti, miliziani dello Stato Islamico avevano aperto il fuoco contro soldati turchi. Subito dopo l’aviazione turca aveva colpito alcune postazioni dell’Is e cominciato a bombardare i rifugi del PKK sulle montagne di Kandil. Finora i combattimenti hanno fatto cento vittime tra le forze turche e più di mille tra i miliziani curdi. Considerevole è anche il numero di vittime fra la popolazione civile nella regione curda. Il PKK ha proclamato l’autogoverno in molti distretti. In cambio le autorità turche hanno dichiarato il coprifuoco in molte zone. La città di Cizre, dove i miliziani del PKK controllavano due quartieri, è rimasta isolata per nove giorni. Nelle regioni occidentali alcune bande hanno attaccato cittadini e imprese curde, hanno ucciso un uomo che parlava curdo, incendiato la sede dell’HDP (Partito democratico del popolo, filocurdo) ad Ankara e circa 400 uffici del partito.

La scelta del governo turco di rispondere in modo massiccio al PKK e di seppellire il dialogo può essere attribuita a preoccupazioni di ordine interno. Il filo comune che unisce le ostinate politiche del governo e la violenza del PKK è il grande successo dell’HDP alle elezioni del 7 giugno. L’HDP è riuscito a superare agevolmente la soglia di sbarramento del 10 per cento grazie all’abbandono del partito di governo (l’AKP di Erdogan) da parte dei curdi conservatori. Il suo successo ha impedito all’AKP di conquistare una maggioranza assoluta in parlamento e ha fatto svanire il sogno di Erdogan di cambiare la costituzione e dar vita a un regime presidenziale. Questo spiega gli intensi sforzi per screditare e diffamare l’HDP e il suo leader Selahattin Demirtas. La violenza nelle regioni curde suscita inoltre preoccupazioni circa la possibilità di un normale svolgimento delle elezioni.

Più difficile da analizzare è la posizione del PKK. Non c’è dubbio che le sue operazioni militari stiano scatenando un putiferio in tutto il Paese e stiano provocando una forte reazione contro l’HDP. Il PKK vuole impedire la ricerca di una soluzione pacifica della questione curda. La reazione dei suoi dirigenti al successo dell’HDP tradisce il loro risentimento contro il rafforzamento dell’opzione parlamentare e la popolarità di Demirtas.

Finora nessuna delle due parti è riuscita a convincere il grosso dei propri sostenitori che quest’ondata di violenza era necessaria. Ora l’attentato terroristico di Ankara ha indotto il PKK a dichiarare che non entrerà in un conflitto a meno che non venga attaccato. Si spera che anche le forze di sicurezza cessino le loro operazioni. La Turchia finora deve molto al buonsenso della sua maggioranza silenziosa. Compito del potere politico è oggi quello di assicurare un normale svolgimento delle elezioni secondo gli auspici di gran parte della popolazione.

traduzione di Mario Baccianini