Appena Dario se n’è andato, è scattata la corsa al dileggio, al retroscena e al gossip. Perché il nostro Paese non sa accettare la grandezza dei suoi “santi laici”
Ero al funerale di Dario mentre Milano veniva affogata da una pioggia torrenziale, che se uno avesse voluto concedersi un pensiero buffo avrebbe potuto interpretarla come la sua benedizione di sacrilega acqua piovana. O il grande pianto del cielo di Milano alla morte del suo giullare.
Non c’erano i suoi editori, non c’erano i direttori dei giornali, troppa la paura che la propria presenza potesse risultare un automatico schierarsi con l’opposizione. C’erano, invece, le persone che avevano lavorato con lui nelle case editrici e nei giornali. Quelle sì. Il governo si è tenuto lontano, solo un ministro in rappresentanza, solo per l’altisonanza del nome. Non di Dario, ma del premio che ha ricevuto. In fondo l’Italia è così: un piccolo paese dove basta mormorare di un premio per ottenere un po’ di rispetto. Ma Dario Fo è più di quel premio. Le sue opere sono racconti fondamentali, goduriosi, potenti, fisici, portati in mezzo mondo. Fo è un grande artista perché anche se non lo si condivide suggerisce, fa ridere e fa riflettere.
Eppure aleggiava una certa paura tra gli ombrelli al suo funerale. Una paura becera e vigliacca, perché esserci significava prendere parte alla meravigliosa confusione della sua vita, non di certo diventare militante del Movimento 5 Stelle o nemico di Renzi. Essere al funerale di Fo significava solo essere al funerale di Fo.
In Italia, però, la notizia o è cattiva o non è. E anche se la notizia di una morte è di per sé una notizia cattiva, da sola non basta per essere abbastanza cattiva. La notizia di una morte in genere viene accompagnata da commenti sulla vita e lì si affaccia il mondo degli odiatori di professione, di chi avvelena i pozzi perché ha capito che l’informazione nel nostro Paese si è ridotta a questo: a un abbassamento continuo, alla volontà di rendere non semplicemente terreno ciò che terreno già è, ma di renderlo sotterraneo, nascosto, dopo averlo infarinato nella terra secca perché diventi irriconoscibile, indistinguibile da tutto il resto. E quindi una morte diventa l’occasione per mettere un altro punto fermo alla storia (quella col segno meno, però) di un certo modo di fare informazione: non importa chi tu sia stato in vita, quante persone abbiano apprezzato i tuoi lavori, quello che conta ora è dire che dal momento che sei morto eri terreno, eri come noi, umano e soprattutto fallibile. Prendo, allora, tutti i vizi che mi vengono in mente e te li attribuisco adesso, nel giorno stesso della tua morte, perché a nessuno venga in mente di trasformarti in un santino. Meglio bloccare questo inutile processo subito: i santi laici non sono consentiti. I santi laici sono censurati, allontanati, vituperati, criticati. I santi laici devono essere dimenticati.
Ho sempre apprezzato il giornalismo anglosassone che di fronte alla morte non nutre quel rispettoso silenzio che invece hanno i paesi di tradizione cattolica. La morte che cancella tutti i peccati per restituire un’immagine del morto trasfigurata. Ho sempre apprezzato la capacità di raccontare il morto come era da vivo, senza dimenticarne le ombre.Ma questo non ha nulla a che vedere con la chiacchiera che tutto lorda.
In Italia hanno setacciato il terribile spazio del retroscena e del gossip squallido. Parlare della sua esperienza repubblichina è stato, fin da quando era in vita, un disperato tentativo di accollargli una colpa. Fo aveva diciotto anni e nella costruzione di una vita può accadere che a vent’anni si sia vittima di abbagli. E così quando arriva la chiamata alle armi la scelta tra la montagna e l’arruolamento non è così scontata. Una delle versioni di Fo fu di aver aderito alla Repubblica Sociale per proteggere un’attività resistenziale da parte di suoi parenti. Il tribunale che ospitava il processo relativo alla causa intentata da Fo nei confronti di un giornale che lo aveva accusato di essere repubblichino rigettò questa versione. A me verrebbe da dire: e allora? Anche se fosse stata una scelta consapevole: e allora? La grandezza di un artista nasce proprio dalla sua complessità. L’incoerenza e la contraddizione sono parti fondamentali di una personalità coerente, coerente di volta in volta con i principi in cui crede: non si matura senza contrasto, non si diventa adulti senza cambiare idee.
Allo stesso modo, il progetto della famiglia Fo doveva essere aggredito in tutti i modi: e quindi si sussurravano le relazioni, si diffondeva l’immagine di un Fo playboy. Quante balle. Non conta nemmeno sapere se queste voci fossero vere o false, mi importa raccontare il progetto che Dario e Franca hanno realizzato insieme. Un progetto che ha dentro tutto quello che loro sono stati: contraddizione, sofferenza, distacchi, riavvicinamenti e un’infinita dose di amore.
Di tutto questo non posso dire altro se non che ci hanno lasciato uno straordinario patrimonio, nonostante i loro umani e naturali errori, perché la loro grandezza è stata di aver sempre preso parte: a volte ingenuamente e sbagliando, a volte per campo politico, ma sempre con arte, con la capacità di sorridere.
Non il semplice sarcasmo, non la scontata freddura, non il distaccato ghigno di chi sta alla finestra e prende per il culo il creato, difeso dall’anonimato del web o dalla ormai sempre più inutile attività giornalistica. Dario Fo e Franca Rame erano un’altra cosa e seppero per decenni vivere e lavorare, in un mondo complesso che mai vollero semplificare; seppero lavorare tra difficoltà e censure che li hanno accompagnati fino alla fine.
Dario Fo è morto e già questa a me sembra una bestemmia. Un uomo con la sua vitalità e la sua energia, un uomo capace fino alla fine di provare passioni forti non è associabile alla morte. Ridurre, poi, la morte al racconto dei retroscena della vita privata, è una cosa aberrante. Tanto più aberrante perché nel nostro Paese è questa l’unica comunicazione a fare davvero notizia. L’Italia dei panni sporchi che si lavano in famiglia e l’Italia dei vizi di Dario Fo sono due facce della stessa medaglia, parti complementari di uno stesso inutile scarabocchio.
Fuori dall’Italia non deve uscire nulla che non sia stereotipo. Della criminalità organizzata, ad esempio, si può parlare, ma esportando un racconto premasticato, che non rovini la digestione, rassicurante: la mafia esiste, ma il bene vince sempre. E si trovano sempre nuovi modi per celebrare la mediocrità e nuovi modi per mortificare l’eccellenza. Dario Fo ha vinto il Nobel per la letteratura e doveva arrivare Bob Dylan perché ci fossero nuove polemiche su un premio che l’Accademia prova ad adeguare allo spirito del tempo. Eppure negli ultimi mesi di notizie che sarebbe valsa la pena diffondere ce ne sono state tantissime. Notizie che avrebbero potuto occupare lo spazio dei retroscena, che avrebbero potuto descrivere un mondo nel quale non si deve gioire necessariamente per le sventure altrui, ma anche e soprattutto per le buone notizie.
Quasi un anno fa Gazebo mandò in onda un reportage sulla jungle di Calais poi sgomberata. In quell’occasione intervistarono Osama, un rifugiato siriano che viveva lì. La situazione era disperata e i tentativi di raggiungere l’Inghilterra fallivano tutti. Giorno dopo giorno. Settimana dopo settimana. Mese dopo mese. Eppure, contro ogni aspettativa, Osama ce la fa: dopo aver perso tutto in Siria, famiglia, casa e lavoro; dopo aver affrontato un viaggio tremendo; dopo aver vissuto la rigidità del clima nordeuropeo in una baracca riesce a raggiungere l’Inghilterra. Dove impara la lingua e dove presto lavorerà. La verità è che le notizie sono tante, sono infinite. È la scelta a fare la differenza. Noi siamo le notizie che colpiscono la nostra attenzione. E siamo soprattutto le notizie che decidiamo di fare nostre e di diffondere.
Noi siamo la solita Italia, ma per fortuna in questo “solito” non c’è soltanto tutto il terribile provincialismo e l’incredibile mancanza di risorse di un piccolo paese sempre meno influente sul piano culturale (che peccato), ma ci sono anche grandezze. Grandezze come la vita di Fo, una meravigliosa incantevole complicata vita: sbagliata, giusta, tenuta in piedi da un equilibrio stranissimo, quasi misterioso. Misteriosamente buffo.