Perché e come intervistare i boss

Raccontare i mafiosi, farli perfino parlare in tv. È una sfida che serve a conoscere meglio la realtà. Ma ad alcune condizioni

Per conoscere la storia di un paese non basta studiare quella delle sue istituzioni, ma è necessario anche sondare la parte sommersa, scavare tra gli atti giudiziari e cercare di venirne a capo. Le organizzazioni criminali sono consorzi criminal-imprenditoriali che non hanno sofferto la crisi economica, basando il loro core business sul monopolio del traffico di stupefacenti. Con i proventi di quello invadono ogni altro settore. Non raccontare questo meccanismo e non raccontare i protagonisti significa conoscere la storia a metà. Ecco perché ho deciso di portare in televisione le biografie dei boss.

La prima obiezione che mi arriva è se raccontarle non possa generare emulazione. Che si tratti di resoconti giornalistici o di fiction, una parte di chi osserva finirà necessariamente per specchiarsi. E specchiarsi significa che non esiste emulazione possibile perché la strada intrapresa era già quella. Chi ha gli strumenti per non immedesimarsi nel racconto - e immedesimarsi in efferati assassini, che passano la vita a nascondersi non è una dinamica scontata - ha anche gli strumenti per tenersi lontano da quei mondi. Ma la lontananza non è fisica. Abbiamo sentito dire infinite volte: «A Scampia, a Napoli ci sono tante persone per bene». Non esiste affermazione più vera di questa. In terra di mafia, di camorra, di ’ndrangheta esistono gli anticorpi più efficaci contro l’illegalità, perché chi vive lì sa esattamente come vivono gli affiliati. E sa che nonostante le pochissime prospettive e le scarsissime opportunità, la scelta criminale è la meno percorribile perché è la negazione della vita stessa. Inoltre le vite dei boss non sono raccontate come vite da leoni, ma come vite da topi, costretti a nascondersi, a sacrificare la famiglia, anche fisicamente, in nome di un potere che dovranno esercitare nell’ombra senza potersi fidare di nessuno, e di un denaro che non potranno godersi.

E come la mettiamo con le interviste ai boss? Mi si dirà: ma non è rischioso consentir loro di dare messaggi? Lo è, certo, pericoloso, se non si hanno strumenti per interpretare le loro parole, se non è immediatamente chiaro il destinatario. Maurizio Prestieri, ha voluto dare in televisione un messaggio chiaro: io non sono un pentito. Ha detto che il pentimento riguarda un moto dell’animo e lui questo moto non l’ha mai avuto. Che è ancora un camorrista anche se non può più agire da camorrista perché ha collaborato con la giustizia. L’intervista a Prestieri si pone in completa antitesi a quella che Bruno Vespa fece a Salvo Riina. Dopo quell’intervista, la maggior parte delle persone non aveva affatto capito a cosa fosse servita, non aveva capito il messaggio e tantomeno a chi fosse indirizzato. E non l’ha capito perché il figlio del boss non stava parlando a loro ma alla magistratura e a Cosa Nostra. In quel caso Raiuno era diventata una piattaforma attraverso cui il figlio di Riina stava dando due messaggi importantissimi. Il primo alla magistratura, aprendo un varco per la dissociazione, che consiste nell’accusare se stessi dei propri reati tralasciando quelli commessi dagli altri, di auto accusarsi a titolo personale ma non associativo, come se l’organizzazione non esistesse. Lo scopo della dissociazione è mantenere indenne chi gestisce il denaro e dare, in cambio di questo salvacondotto, una testimonianza piena riguardo alla propria attività criminale. Naturalmente nello scambio avrebbe dovuto esserci anche la fine del regime di carcere duro. Il secondo messaggio era rivolto agli esponenti della nuova Cosa Nostra: era un avvertimento a non interferire e a non far gravare sulla vecchia mafia, che ora non esiste più, le loro colpe e i loro crimini.

Le parole di Prestieri, al contrario, sono inequivocabili, anche nel messaggio che eventualmente ha mandato alla camorra. E quando il messaggio è chiaro diventa difficile provare empatia e difficilissimo aver voglia di emulare la ferocia. Ripeto da anni che se oggi investo mille euro in cocaina tra un anno me ne torneranno 182 mila: è innegabile che si tratti di un investimento redditizio; cosa impedisce quindi ai ragazzi di pensare di investire in coca i soldi che hanno ricevuto per i diciott’anni o i primi stipendi? Ecco cosa: la conoscenza, sapere esattamente come vivono affiliati e boss. Il racconto ci salva, non smettiamo di avere fiducia nelle parole.

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