La parola sembra scomparsa dal vocabolario della politica. Eppure è ormai arrivato a 2.400 miliardi e ha una pesante influenza su tutte le scelte future

C’è una parola che sembra scomparsa dal vocabolario politico italiano: debito. È bastato che il Conte 2 mandasse a casa Salvini e mettesse la sordina alla premiata ditta Borghi & Bagnai perché lo spread lasciasse le vette di quota 240 (il 14 agosto dell’“anno bellissimo”) per planare ai 163 punti di dicembre. Tutti più tranquilli. E dunque, perché parlarne ancora? Il silenzio è d’oro, e anche consolatorio.

Eppure il debito pubblico è sempre là nella sua mole spaventosa, e aumenta: a 2400 miliardi, euro più euro meno. Un doppio record, perché non solo è il più colossale d’Europa, ma cresce mentre tutti gli altri calano. Le statistiche lo fissano a quota 136 per cento sul pil, cioè lo Stato incassa 100 e spende 136. E tra un anno ricomincia la telenovela delle clausole di salvaguardia, altri 25 miliardi di aumenti dell’Iva da scongiurare. Per allarmarsi non è necessario essere economisti.

Ecco perché l’Italia è considerata un malato che al primo stormir di crisi potrebbe diventare contagioso. Ce lo hanno appena ricordato Christine Lagarde, che guida la Bce del dopo Draghi, e Valdis Dombrovskis, numero due della Commissione europea, che assieme al sì alla manovra ha annunciato un’attenta verifica dei nostri conti. Di nuovo. Perché se è vero che lo spread non sale, è anche vero che da dov’è non schioda: è il doppio – che so? – di Spagna e Portogallo. Del resto, l’Italia da anni affronta il problema solo chiedendo più flessibilità. E il bello è che l’Europa sarà pure matrigna, ma ce l’ha sempre concessa.

Nella sua fluviale conferenza stampa di fine anno, il premier – l’unico nella storia della Repubblica che nello stesso giorno sia riuscito a fare il bilancio di due governi, entrambi suoi – ha accennato al debito pubblico solo per dire che sarà pure monstre, ma che per fortuna è per la maggior parte in mano italiana. Che equivale a dire che non è un problema, nemmeno meritevole di finire nel cronoprogramma prossimo venturo. Non è una novità, però è cambiato l’argomento: Conte 1 & C. dicevano ieri che il debito c’è, ma bilanciato da un enorme risparmio privato; Conte 2 spiega oggi che è quasi tutto in Italia. È una mezza verità, come molte delle cose dette in quella sede.

In effetti solo un terzo del debito è in mano straniera, soprattutto banche americane, francesi e tedesche; il 5 per cento è in tasca a risparmiatori privati; il 20 appartiene a fondi e assicurazioni made in Italy; ma il 40 per cento è ora nelle casse di Palazzo Koch e delle banche italiane per via del quantitative easing di Mario Draghi che ha spinto il sistema bancario a sostituirsi a molti piccoli risparmiatori (pochi anni fa erano quattro volte di più). Certo, questo è positivo: se il debito è in casa è meno soggetto a crisi e speculazioni dall’estero; ma pochi investitori stranieri possono significare anche scarsa fiducia nel Paese, e questo può contribuire ad abbattere il valore di titoli fermi nei conti delle banche.

Insomma, per uscire dal circolo vizioso bisognerebbe fare solo una cosa: ridurre il debito, liberando risorse per gli investimenti. Come si fa? O si tagliano le spese; o si incassa di più con la crescita economica e la lotta all’evasione fiscale; o si modificano i vincoli europei. Ora, tagliare è sempre più difficile per l’ingente spesa corrente, il peso delle corporazioni e il rischio di ulteriori effetti depressivi: la lotta all’evasione, quando c’è, ha effetti dopo molti anni; di crescita manco si parla: più 0,1 nel 2019, più 0,6 nel 2020, i soli interessi sul debito sono tre volte tanto e in quanto agli stimoli previsti dalla manovra appena approvata, sono davvero poca cosa; per cambiare le regole europee, infine, bisognerebbe far valere il proprio peso al tavolo delle trattative – oggi minimo proprio perché non rispettiamo le regole – ottenendo maggiore fiducia dai nostri partner. In che modo? Mettendoci subito al lavoro per aggiustare le cose riducendo il debito. E siamo daccapo. Ma almeno si potrebbe cominciare a parlarne seriamente. Ora qualcuno dirà che prima bisogna aspettare il voto in Emilia…

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