L’Occidente distrugge il mondo con il colonialismo ambientale. E non vuole pagare i danni

Il 92 per cento delle emissioni arrivano dai Paesi ricchi, che ora non vogliono pagare per i guasti frutto di un modello sbagliato. Ma si tratta di un dibattito inevitabile

Pochi giorni fa, una persona di alto livello dell’establishment politico-strategico tedesco, facendo il punto sul mondo nei prossimi dieci anni, ha detto qualcosa di notevole durante un incontro a pranzo, altrimenti piuttosto prevedibile, tra persone che la pensano per lo più allo stesso modo: non usa più il termine “Occidente” parlando di politica, ha detto, perché questo termine è troppo carico di brutti ricordi ed esperienze - non può quindi più essere usato in senso costruttivo, poiché i valori che “l’Occidente” ha preteso di sostenere sono stati screditati.

 

Si riferiva, tra l’altro, alla guerra in Iraq dei primi anni 2000, una guerra che si supponeva fosse stata combattuta in nome dell’“Occidente” e di valori “occidentali” come la libertà e la democrazia - una guerra sbagliata e soprattutto illegale, come riconoscono oggi anche coloro che all’epoca la difendevano. Ma cosa significa se le persone al centro dell’establishment smettono di parlare di “Occidente”? Qual è la strategia che sta dietro a questa affermazione che, in apparenza, potrebbe essere considerata un processo di apprendimento? Cosa si ottiene lasciando andare “l’Occidente” - e per chi?

 

Credo che la dichiarazione sia interessante nel contesto di ciò che è stato e di ciò che sarà, e forse soprattutto nel contesto della crisi climatica. È un’affermazione che allude a un mondo del XXI secolo che sarà strutturato in modo diverso e secondo diverse linee di potere, valori, sistemi politici, un mondo in movimento sostenuto da un discorso altrettanto in movimento. Il senso di questo cambiamento, e qui diventa interessante collegare il passato e il futuro, è a mio avviso quello di rendere “l’Occidente” più agile per agire negli anni a venire, liberando questi Paesi dal bagaglio storico, dal senso di colpa e dalle sue conseguenze.

 

Ed ecco il collegamento che vedo con la crisi climatica - e la crescente richiesta di un impegno concreto e finanziario da parte delle nazioni responsabili della maggior parte della distruzione, “l’Occidente” appunto. Alla Cop27, la conferenza sul clima che si è conclusa a novembre nella località egiziana di Sharm el Sheikh, è stato il dibattito sulle “perdite e i danni” a dare questo tono: i costi economici del cambiamento climatico nei soli Paesi in via di sviluppo sono stati stimati tra i 290 e i 580 miliardi di dollari entro il 2030, una somma molto probabilmente ancora troppo bassa. Già nell’Accordo di Parigi del 2015 è stato chiaramente affermato che i Paesi del Nord globale, “l’Occidente”, devono riconoscere la loro responsabilità storica e pagare la loro parte per affrontare la crisi climatica.

Georg Diez

Come promemoria: “l’Occidente”, principalmente gli Stati Uniti, l’Europa e forse il Giappone, è stato costruito intorno alla promessa di promuovere la democrazia, la crescita, la prosperità, il progresso - un progresso in termini prevalentemente materiali ed economici che è stato criticato in molti modi, in particolare per il fatto che la crisi climatica è stata causata proprio da questa nozione e dalla pratica del progresso. Ci sono molte altre forme di ingiustizia associate a questo - dall’estrattivismo coloniale e la schiavitù alla continua distruzione delle società del Sud del mondo e la prevalente dipendenza dalla misericordia del Nord del mondo - ma è più urgente notare che “l’Occidente” è responsabile del 92% delle emissioni globali di CO2, mentre “il resto” del mondo sta sopportando il peso della distruzione, attualmente e in futuro.

 

In questo contesto cosa significa evitare il termine “Occidente”? È emancipatorio o evasivo? O addirittura astuto? Senza dubbio, il dibattito si sposterà nei prossimi anni e diventerà sempre più controverso: dalle “perdite e danni” e dalla questione di come minimizzare o mitigare le conseguenze del cambiamento climatico alla richiesta di veri e propri risarcimenti climatici, un concetto più direttamente legato alla questione del colonialismo e alla responsabilità diretta dei Paesi sviluppati che più hanno tratto profitto dalle ingiustizie del passato. Ciò riguarda direttamente l’Europa e rende necessaria una risposta costruttiva.

 

Il dibattito sul legame tra colonialismo, capitalismo e prosperità dell’Europa ha preso sempre più piede a mano a mano che le sue conseguenze sono diventate sempre più evidenti. A volte questi dibattiti sono più incentrati sull’identità nazionale, come negli Stati Uniti con il riconoscimento del prezzo della schiavitù. A volte sono più culturali, come in Europa con la questione dei musei e della restituzione delle opere d’arte rubate da Paesi africani, asiatici o sudamericani. Ma nel contesto della crisi climatica, questo dibattito coloniale o post-coloniale deve portare, a mio avviso, a proposte concrete su come cercare la giustizia attraverso una massiccia redistribuzione della ricchezza e del denaro.

 

Non sono ingenuo e so che sarà difficile da realizzare, soprattutto alla luce dei dibattiti attuali che sembrano puntare in un’altra direzione: i discorsi su come cambiare le infrastrutture energetiche nei Paesi del Sud del mondo e le pratiche estrattive riguardanti le materie prime rare necessarie per le batterie e altri strumenti ad alta tecnologia puntano verso un regime neo-coloniale, creando nuove dipendenze e aprendo nuovi mercati. Ma viviamo in un momento cruciale della storia dell’umanità - e il “business as usual” non è un’opzione per coloro che vogliono davvero fare tutto il possibile per salvare il pianeta e il maggior numero di vite possibile.

 

Per i Paesi europei e per l’Ue in particolare, questo sarebbe un grande momento per riflettere ancora una volta in modo critico sulla propria storia e sul proprio patrimonio e per agire sulla base di una comprensione condivisa delle responsabilità in materia di cambiamenti climatici. Questo potrebbe essere un momento, e persino un movimento, per un nuovo approccio alla comunità mondiale che superi la vecchia logica degli Stati nazionali e abbracci veramente la dimensione planetaria della crisi attuale. Siamo tutti collegati, non solo in questo momento e nel futuro, ma anche attraverso ciò che è accaduto in passato.

 

In effetti, non è utile usare il termine “Occidente” per andare avanti, ma per ragioni diverse. Non possiamo affrontare i problemi del futuro con il pensiero del passato. Abbiamo bisogno di nuove risposte e di un nuovo vocabolario. Abbiamo bisogno di un nuovo pensiero e di un approccio veramente emancipatorio al cambiamento climatico e alla giustizia climatica.

 

Traduzione di Amanda Morelli e Nicholas Teluzzi. A cura di Amélie Baasner

 

Georg Diez è scrittore e giornalista. Ha lavorato per molti anni per la Süddeutsche Zeitung, la Frankfurter Allgemeine Sonntagszeitung, Die Zeit e come editorialista politico per Spiegel Online. Ha studiato storia e filosofia a Monaco, Parigi, Amburgo e Berlino. Nel 2016/17 ha trascorso un anno come Nieman Fellow all’Università di Harvard. La natura e la portata delle crisi attuali lo hanno spinto a cambiare rotta e ad aderire a The New Institute

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