Il programma Spotlight di Rai News 24 intervista un militare ucraino che rivela come a uccidere i due giornalisti il 24 maggio del 2014 furono i lealisti ucraini. E il loro comandante oggi è deputato e cura i rapporti con l’Italia

L’uomo osserva la mappa sullo schermo del portatile, poi annuisce e si infila in bocca una sigaretta: «Sì, quel giorno ero lì», esclama massaggiandosi le tempie. «Ho ancora la scena davanti agli occhi. Alcuni civili erano scesi da una macchina e si erano gettati nel fossato, in mezzo alla boscaglia. Non so chi di noi li abbia avvistati, ma ricordo le parole del nostro comandante: “Quelle persone non devono stare lì”. Poi abbiamo iniziato a sparare con le armi pesanti».

 

Sono trascorsi quasi otto anni dalla morte di Andy Rocchelli e Andrej Mironov, i due giornalisti uccisi a colpi di mortaio il 24 maggio 2014 alle porte della città di Sloviansk, in Ucraina orientale. Oggi, per la prima volta, un testimone in divisa, un militare ucraino, che si trovava sul posto ha accettato di raccontare cosa accadde in quelle drammatiche ore. L’intervista integrale andrà in onda il 4 febbraio nella puntata di Spotlight, il programma di inchiesta di Rainews 24: “La disciplina del silenzio, inchiesta sulla morte di Andy Rocchelli e Andrej Mironov”. Siamo in una grande città dell’Europa occidentale, e l’uomo seduto davanti alla telecamera è un ex militare dell’esercito di Kiev: lo chiameremo Sergej, ma per comprendere le sue parole dobbiamo anzitutto partire dall’inizio.

 

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Rocchelli nel 2014 aveva appena 30 anni, ma poteva già vantare un lungo curriculum da reporter negli angoli più “caldi” del globo: dalla Libia alla Tunisia, al Kyrgyzstan, alla Cecenia. Mironov, che di anni ne aveva 60, aveva alle spalle sei lustri di battaglie per la democrazia e la libertà di parola, prima in Unione Sovietica e poi nella Russia di Putin. Nel Donbass ci erano andati da freelance, per documentare in presa diretta le prime fasi del conflitto tra l’esercito ucraino e i separatisti filorussi, che poche settimane prima avevano preso possesso delle province orientali del Paese. Sloviansk in quei giorni è saldamente in mano alle milizie ribelli, mentre i soldati lealisti trincerati sul monte Karachun, un’altura che domina la periferia meridionale della città. Il pomeriggio del 24 maggio Andy e Andrej salgono su un taxi assieme a un giovane collega francese, William Roguelon, e si fanno trasportare nei pressi dell’ultimo baluardo pro-russo in vista della collina, una ex fabbrica di ceramiche trasformata in fortino dai combattenti separatisti. La vettura viene posteggiata nei pressi di un incrocio, i passeggeri escono dall’auto e s’incamminano fino al passaggio a livello che segna il punto di demarcazione tra i due schieramenti, ma proprio mentre stanno scattando le prime fotografie ai vagoni merci che i miliziani hanno saldato ai binari vengono raggiunti da alcuni proiettili di arma leggera. A questo punto i tre reporter, il tassista e un passante che si era unito a loro decidono di rifugiarsi nel lungo fossato che costeggia la strada. È allora che inizia il bombardamento: «Fu una pioggia di 20-30 colpi esplosi a ritmo serrato, con la chiara volontà di sopprimerci», racconterà Roguelon. Il francese è il primo a essere colpito dalle schegge, che lo feriscono a entrambe le gambe. Poi un proiettile cade su Andy e Andrej, uccidendoli entrambi.

 

Chi ha sparato quel giorno? E perché? Il 30 giugno 2017 il Ros dei carabinieri arresta il ventisettenne italo-ucraino Vitaly Markiv. Markiv era membro della Guardia Nazionale, un corpo di volontari creato nel 2014 dal governo di Kiev. Nel mese di maggio il giovane militare era in servizio con la sua unità sul monte Karachun e durante la sparatoria, secondo gli inquirenti, avrebbe contribuito ad avvistare i reporter e a segnalarne la posizione. A carico di Markiv c’è soprattutto un articolo della giornalista Ilaria Morani, che lo intervistò telefonicamente all’indomani del massacro: «Appena vediamo un movimento carichiamo l’artiglieria pesante. Così è successo con l’auto dei due giornalisti», si legge nel virgolettato. Il processo di primo grado si svolge a Pavia, in un’aula spesso affollata di supporter pro-ucraini. La tesi di Kiev è diametralmente opposta a quella dei magistrati: a uccidere Andy e Andrej sarebbero stati «i terroristi filorussi», la cui macchina propagandistica avrebbe poi avuto un’influenza nefasta sulla procura. Ma intanto la giustizia continua a fare il suo corso. I comandanti della Guardia Nazionale, chiamati a deporre dalla difesa, si contraddicono più volte tra loro, mentre l’imputato seguita a proclamarsi innocente. Condannato a 24 anni per concorso in omicidio, Markiv sarà poi assolto in appello a causa di un vizio di forma: i suoi superiori, che avevano confermato la posizione del militare sulla collina, avrebbero dovuto essere sentiti non come testimoni, ma come possibili complici. Il 9 dicembre 2021 quest’ultimo verdetto sarà confermato dalla Cassazione.

 

La nostra inchiesta è partita da qui, dai punti fermi delineati dalla magistratura italiana. Tutte le sentenze, compresa quella che assolve Markiv, affermano che i colpi mortali furono «sparati dalla collina del Karachun ad opera dei militari dell’armata ucraina». La carte dicono però anche un’altra cosa: a premere materialmente il grilletto - al netto di avvistamenti e segnalazioni - non può essere stata la Guardia Nazionale, i cui membri erano equipaggiati solo con armi leggere. I mortai, a Karachun, erano manovrati da un’altra unità: la 95a brigata aviotrasportata, un reparto d’élite dell’esercito ucraino che affiancava la squadra di Markiv a difesa dell’altura.

 

I soldati della 95a Brigata, tuttavia, nelle aule di giustizia non sono mai comparsi. Era possibile, rintracciandoli, aggiungere qualche nuovo tassello al quadro tracciato dai giudici?

 

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Ci siamo concentrati fin da subito sui disertori, i cui elenchi vengono regolarmente pubblicati online dalle autorità di Kiev: partivamo dal presupposto che solo qualcuno che avesse gettato la divisa potesse accettare di collaborare a una simile inchiesta. È stato così - dopo lunghe ricerche e infiniti buchi nell’acqua - che siamo giunti a Sergej.

 

Nel maggio 2014 Sergej era un soldato della 95a Brigata. Faceva parte della “rozved rota”, la squadra delle sentinelle. Il suo compito era quello di osservare il territorio, come dimostrano alcune foto - pubblicate su un profilo social - che lo ritraggono nella sua trincea di Karachun, in una posizione esattamente frontale rispetto al luogo dove sono stati uccisi Rocchelli e Mironov. Non sapeva che quei civili appena usciti dalla vettura fossero reporter stranieri, ma a sette anni di distanza - e con migliaia di chilometri che lo separano dalla madrepatria, abbandonata dopo la diserzione - i suoi ricordi sono nitidi e precisi: «Non so perché il nostro comandante abbia dato l’ordine di sparare. Non c’erano state provocazioni e quegli uomini erano vestiti in abiti borghesi, non rappresentavano una minaccia per noi. I primi colpi esplosero lontani, oltre la fabbrica di ceramiche, poi il tiro si spostò verso l’incrocio (dove era posteggiato il taxi, ndr), infine i proiettili si abbatterono sul fossato. Si sparò come si fa in guerra, per uccidere, e dalla mia postazione vidi chiaramente le bombe schiantarsi tra gli alberi. Non usammo i normali mortai: sparammo col Vasilek, un mortaio automatico che può esplodere raffiche di quattro colpi. L’episodio mi restò impresso, perché non avevamo mai sparato con tanta intensità in quella esatta direzione», racconta.

 

La dinamica descritta da Sergej coincide perfettamente con le ricostruzioni dei magistrati. Ce lo ha confermato l’unico reporter sopravvissuto all’attacco, William Roguelon, al quale abbiamo mostrato in anteprima la nostra intervista: «Il racconto del testimone è del tutto sovrapponibile col mio. È proprio così che sono andate le cose», ci ha detto William. E poi c’è il Vasilek, un’arma che nessuno, prima d’ora, aveva mai menzionato in relazione al caso Rocchelli. Il Vasilek spara proiettili calibro 82, e i miliziani separatisti accorsi sul posto all’indomani dell’attacco hanno sempre sostenuto che le schegge da loro rinvenute erano proprio di quella misura. Ma i riscontri più interessanti provengono da tutt’altra direzione. Nel 2021, a Kiev, è stato pubblicato un pamphlet innocentista dal titolo “Vitaly Markiv” (edizioni Folio, autrice Daria Bura). Uno degli intervistati è Andrej Antonishak, che nel 2014 era tra i comandanti della Guardia Nazionale a Karachun: «Alla zona industriale (cioè nella zona della fabbrica di ceramiche, ndr) [i nostri soldati] usavano i Vasilek da 82 mm», afferma il militare. Esattamente una pagina prima è riportata la seguente dichiarazione inedita di Maxim Tolstoiy, il civile che si rifugiò nel fosso con i tre reporter e il tassista: «[Quel giorno] sparavano non in colpi singoli, ma in diverse salve». La tesi di fondo è che Andy e Andrej siano stati uccisi dai filorussi con la “Nona”, un cannone da 122 mm. Gli autori non si sono accorti, tuttavia, che la “Nona” spara a colpi singoli e non «in diverse salve». Quello, per l’appunto, era il Vasilek.

 

La nostra inchiesta è durata oltre un anno e ci ha condotto in Ucraina, dove abbiamo rintracciato gli ex commilitoni di Sergej che quel giorno erano con lui sulla collina. Siamo riusciti a incontrare anche il comandante della 95a Brigata, l’ufficiale che secondo il nostro testimone avrebbe dato l’ordine di sparare contro i reporter. Si chiama Mikhailo Zabrodskyi, è stato proclamato eroe dell’Ucraina, dal 2019 siede nel Parlamento di Kiev e oggi è membro del Gruppo per le relazioni interparlamentari con la Repubblica italiana. Nel maggio del 2014 - per sua stessa ammissione - era responsabile di tutte le truppe presenti a Karachun. Il prossimo capitolo di questa storia - se mai ce ne sarà uno - dovrebbe forse partire da lui.