Claudia è in tribunale e davanti a lei c’è Matteo, il ragazzo di diciannove anni che, la notte del 25 aprile del 2011, ha aggredito al posto di blocco due carabinieri riducendo in coma suo marito Antonio. È arrabbiata, si sente come una candela che si sta esaurendo e in quell’aula urla al giovane di guardarla negli occhi, di rendere conto del dolore procurato. Come tutti vorrebbe solo che fosse punito, che ricevesse una pena esemplare.
Matteo si gira e i loro sguardi si incrociano: sta piangendo. Anche Irene, sua mamma, è disperata. Fino a quel giorno aveva vissuto la sua maternità fra alti e bassi, affrontando i cambiamenti fisiologici di suo figlio più evidenti e altri non percepiti. Viene catapultata in una realtà a cui nessuno, nemmeno l’istinto materno prepara: suo figlio ha quasi ucciso un uomo. Nella pratica diventa una sorta di assistente legale, un ponte fra tribunali, comunità e carcere. Un luogo, quest’ultimo, che aveva visto soltanto in televisione. È anche la madre di un’altra figlia adolescente, a cui deve preservare il diritto alla felicità in un contesto sociale che difficilmente si mostra indulgente. Capisce di dover fare di più e così, malgrado i dolori siano imparagonabili, scrive a Claudia. Non cerca il suo perdono, ma chiederglielo, anche senza risposta, è un dovere che sente nel profondo.
Claudia sta gestendo l’inferno, la depressione, la sofferenza di suo figlio e l’elaborazione di un lutto, mentre suo marito fisicamente è ancora presente, attaccato ai macchinari, ma in realtà non può più sentirla. Quella lettera riaccende una luce, ammorbidisce la rabbia e le due donne si avvicinano perché si riconoscono attraverso il dolore. Il perdono si ottiene con la verità, la conoscenza e la responsabilità.
Antonio muore dopo tredici mesi di coma e Matteo riceve una condanna per omicidio, prima all’ergastolo e poi ridotta a vent’anni di reclusione. C’è chi esulta: giustizia è fatta. Tutti pensano, infatti, che è in quel momento che si ottiene la giustizia. Quando il mostro è in cella ed è possibile dimenticarsi di lui, buttando la chiave. Tutti lo pensano, tranne le due donne ormai avvitate l’una all’altra.
Claudia prova un male fisico e uno nell’anima, dettato dalla certezza che nessuno le avrebbe riportato indietro suo marito. «È davvero così che si spegneranno le nostre vite da oggi, senza rimettere in circolo l’amore e con una condanna che di fatto ti dimostra che uno vale uno?».
Una seconda possibilità è una speranza che non andrebbe mai tolta a nessuno, nemmeno in carcere, luogo che non deve ammazzare, ma riabilitare. Ed è quello che fa Claudia quando perdona Matteo iniziando con lui un percorso di riconciliazione. Le due madri, ormai amiche, hanno creato un’associazione dal nome Amicainoabele per connettere le famiglie delle vittime e quelle dei detenuti.
Matteo sta scontando la sua pena, si è laureato e ha compiuto un lungo percorso che l’ha reso diverso. Lavora per aiutare i minori detenuti a recuperare le loro esistenze, con don Claudio, fondatore dell’associazione Kayrós. Un’opportunità attraverso le arti in modo che un ragazzo migliori la versione di sé stesso. Ha anche costituito una casa discografica a sostegno di giovani artisti: Attitude Recordz.
Il passato non si cancella, ma ogni vita ha un valore.