personaggi e interpreti
Cosa insegna la vittoria di Donald Trump
Serve un leader capace di comunicare con carisma, che sappia farsi rispettare
C’è sempre qualcosa da imparare dalle sconfitte, soprattutto da quelle degli altri, e dunque fa bene il centrosinistra italiano a interrogarsi sulle cause profonde della vittoria dell’impresentabile Trump. Il quale ha dimostrato una cosa chiarissima: il carisma e l’identità forte, perfino estrema, sono determinanti per conquistare l’elettorato in tempi di crisi, soprattutto quando la politica sembra non parlare più alla gente comune, ai forgotten men.
Trump ha vinto non solo per la sua promessa di cambiamento, per la sua capacità di far apparire all’orizzonte il miraggio di un futuro roseo nel quale tutto miracolosamente andrà meglio, ma anche perché ha saputo trasformarsi in un simbolo, una faccia decisa e determinata contro quello che gli americani percepiscono come un establishment elitario.
Ha saputo parlare ai dimenticati, a quella fetta d’America che si sente espropriata e derubata, in una narrativa populista che racconta un’epoca dove la politica gira attorno ai privilegi di pochi. Così gli operai delle fabbriche in crisi, i disoccupati, i piccoli imprenditori travolti dalla globalizzazione si sono rispecchiati nella rabbia di Trump, che ha dato loro una voce forte e perentoria. E non solo: anche la classe media, quella colta ma frustrata, ha visto in lui un’alternativa a una sinistra che, impegnata a rincorrere battaglie identitarie, sembra avere smarrito la capacità di parlare alla pancia del Paese, alle preoccupazioni quotidiane di chi cerca lavoro, casa, sicurezza. Trump ha fatto promesse insostenibili: l’abbattimento delle tasse, il crollo della disoccupazione, il rimpatrio di milioni di immigrati, la fine delle guerre. Eppure ha conquistato il consenso sfruttando le paure degli americani, contrapponendo il suo ottimismo populista alle profezie allarmistiche dei democratici. Promettendo di essere una barriera contro l’incertezza e la confusione. Incarnando la speranza, per quanto illusoria, di un ritorno a un ordine perduto. Certo, l’Italia non è l’America. Ma la campana della sconfitta di Kamala Harris suona anche per Elly Schlein. Perché se vuole avere una possibilità contro Giorgia Meloni il centrosinistra non può permettersi di presentarsi ancora una volta con un volto debole, incerto, frastagliato. Non può continuare a parlare in politichese stretto, compiacendosi della raffinatezza di formule talmente colte da essere comprese da pochi. Oggi più che mai un leader deve saper parlare alla classe media e riconoscere le preoccupazioni e le paure dei cittadini senza rifugiarsi in slogan ambigui. Deve saper unire visione e coraggio. Ed essere capace di prendere decisioni controcorrente. Di rompere gli schemi.
Ma la sinistra italiana ha paura di quest’idea: un leader forte è ancora «un uomo solo al comando». Resta un tabù, un pericolo dal quale guardarsi, per chi coltiva l’eterna nostalgia per le assemblee e i comitati, per i dibattiti eterni senza un verdetto. Eppure, i voti non si guadagnano solo con le buone intenzioni. E oggi, diciamo la verità, manca una figura capace di comunicare con carisma, che sappia farsi rispettare anche da chi oggi guarda altrove. Per sfidare Meloni oggi serve un uomo – o una donna - che sappia proporre un progetto di Paese. Una figura che riesca a incarnare la speranza e il cambiamento, senza apparire fuori tempo o troppo tiepida. Perché il voto americano ha insegnato che gli elettori cercano leader capaci di parlare con chiarezza, senza retoriche infinite. Pronti a incarnare le loro paure, ma anche i loro sogni.