Fuoriluogo
«Dopo il riconoscimento del diritto all'affettività, un carcere diverso non è più un miraggio»
Superare una visione paternalista e autoritaria della pena. Attuare la via della dignità tracciata dalla Corte costituzionale. Ora è possibile. Basta superare resistenze e abitudini cristallizzate
Il carcere sta precipitando in una crisi irreversibile con la rancida ripetizione dell’abominevole realtà del sovraffollamento e la riproposizione della tragedia dei suicidi e, di contro, le stanche e consunte lamentazioni con richieste minimaliste, in linea con il dominante riformismo senza riforme. Ora la Corte costituzionale, con una sentenza rivoluzionaria, ha affermato la strada del diritto e della dignità e ha indicato un percorso per l’amministrazione penitenziaria e la magistratura di sorveglianza di profondo cambiamento, senza nascondere la necessità e la difficoltà di superare abitudini cristallizzate.
L’irrompere dell’affettività e dei colloqui riservati obbligherà a cambiare mentalità e ad abbandonare luoghi comuni: l’articolo 27 della Costituzione diventa non più l’oggetto del desiderio o della polemica giustizialista, ma la bussola che dà la direzione di marcia. Sono occorsi 24 anni per vedere realizzato un principio di umanità e di tutela delle relazioni familiari e degli affetti; infatti, il Regolamento penitenziario – scritto da Sandro Margara e da me sostenuto fortemente quale sottosegretario alla Giustizia – fu pubblicato nel 2000 monco di questa parte, a causa del parere negativo dei parrucconi del Consiglio di Stato.
Adesso, finalmente, il tabù moralistico è caduto e niente sarà come prima. O meglio, niente potrà e dovrà essere come prima, perché l’arma della repressione e della castrazione non potrà più essere brandita contro la sessualità. Il principio affermato dalla Consulta è davvero straordinario perché codifica un diritto estraneo alla logica premiale; dunque, una rivoluzione copernicana che può travolgere le prassi paternaliste e autoritarie. Siamo di fronte a un diritto esigibile, immediatamente. Non è immaginabile, né sarebbe tollerabile, un boicottaggio sia palese sia occulto e non lo è nemmeno l’alibi della mancanza di locali adatti per colloqui senza controllo visivo; si tratta solo di ristrutturare e utilizzare diversamente spazi esistenti. A tale fine, è indispensabile la costituzione di una task force operativa per una ricognizione nelle 190 carceri.
Siamo, insomma, di fronte a un’occasione unica e irripetibile per applicare le regole penitenziarie finora disattese: dalla disponibilità di acqua calda alla presenza di servizi igienici decenti, dalla predisposizione di mense per consumare i pasti non rinchiusi in cella agli spacci per acquistare i prodotti indispensabili per la vita quotidiana con forme di autonomia. Il carcere deve cessare di essere luogo patogeno e dannoso. Occorrono attività culturali, biblioteche che non siano depositi di libri, laboratori per acquisire abilità da utilizzare all’uscita, corsi scolastici di ogni ordine e grado. In una parola: va costruita una comunità che non riproduca emarginazione.
Le obiezioni spesso avanzate dal personale penitenziario sono incomprensibili, basterebbe un confronto con le carceri di tutta Europa per mostrare quanto siano ingiustificate; dimostrano semmai che la formazione indispensabile è proprio sul terreno della concezione della pena. Infine, per limitare il sovraffollamento basterebbe allestire le Case di Reinserimento sociale per le persone con una pena inferiore ai 12 mesi, oltre 7.000 soggetti. A dispetto dei sepolcri imbiancati, torna inaspettata a sventolare la bandiera della libertà.