La Corte boccia l'articolo 18 della legge sull'ordinamento penitenziario che prevedeva il controllo a vista dei colloqui tra partner. Corleone: «È una rivincita dopo 24 anni e la caduta di un tabù. Adesso non ci sono scuse»

Amore e sesso entrano nelle carceri. Da sempre esclusi dalla rigida logica carceraria, la Corte costituzionale ha stabilito, con la sentenza n. 10 del 2024, illegittimo il divieto assoluto per un detenuto di essere ammesso a svolgere i colloqui con il coniuge, la parte dell'unione civile o la persona stabilmente convivente, senza il controllo a vista del personale di custodia "quando, tenuto conto del suo comportamento in carcere, non ostino ragioni di sicurezza o esigenze di mantenimento dell'ordine e della disciplina, né, riguardo all'imputato, ragioni giudiziarie".

 

La Corte ha precisato che, in coerenza con l'oggetto del giudizio principale, la sentenza non concerne il regime detentivo speciale di cui all'art. 41-bis della legge sull'ordinamento penitenziario, né i detenuti sottoposti alla sorveglianza particolare di cui all'art. 14-bis della stessa legge. «L'ordinamento giuridico - ha affermato la Corte - tutela le relazioni affettive della persona nelle formazioni sociali in cui esse si esprimono, riconoscendo ai soggetti legati dalle relazioni medesime la libertà di vivere pienamente il sentimento di affetto che ne costituisce l'essenza. Lo stato di detenzione può incidere sui termini e sulle modalità di esercizio di questa libertà, ma non può annullarla in radice, con una previsione astratta e generalizzata, insensibile alle condizioni individuali della persona detenuta e alle specifiche prospettive del suo rientro in società». 

 

La norma censurata, nel prescrivere in modo inderogabile il controllo a vista sui colloqui del detenuto, gli impedisce di fatto di esprimere l'affettività con le persone a lui stabilmente legate, anche quando ciò non sia giustificato da ragioni di sicurezza. La Corte ha pertanto riscontrato la violazione degli articoli 3 e 27, terzo comma, della Costituzione, per la irragionevole compressione della dignità della persona causata dalla norma in scrutinio e per l'ostacolo che ne deriva alla finalità rieducativa della pena. Rammentato che una larga maggioranza degli ordinamenti europei riconosce ormai ai detenuti spazi di espressione dell'affettività intramuraria, inclusa la sessualità, la Corte ha ritenuto violato anche l'articolo 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 8 Cedu, per il difetto di proporzionalità di un divieto radicale di manifestazione dell'affettività ''entro le mura''. Nell'indicare alcuni profili organizzativi implicati dalla propria pronuncia, la Corte ha auspicato un'"azione combinata del legislatore, della magistratura di sorveglianza e dell'amministrazione penitenziaria, ciascuno per le rispettive competenze", "con la gradualità eventualmente necessaria".

 

 «Finalmente in Italia si afferma quello che è già realizzato in moltissimi stati europei e la stessa Corte mette in rilievo», commenta Franco Corleone, ex sottosegretario alla Giustizia dal 1996 al 2001, componente del Comitato Scientifico de La Società della Ragione e opinionista de L'Espresso: «È una rivincita rispetto a 24 anni fa, quando ero sottosegretario insieme a Alessandro Margara, giudice riformatore, scrivemmo il Regolamento dell’Ordinamento penitenziario del 2000. Avevamo fatto questa previsione: la possibilità di incontri prolungati senza controllo visivo in apposite strutture, ma il Consiglio di Stato la bocciò. Serviva una legge. Non saprei dire se questa è una sentenza rivoluzionaria ma certamente rompe un tabù molto forte dovuto a ragioni di moralismo peloso».

 

La Corte, sottolinea Corleone, non ha scelto una via  simile a quella della vicenda Dj Fabo-Cappato: dando un tempo al Parlamento per promulgare una legge «Ha stabilito che c'è una norma incostituzionale e quindi si afferma un diritto immediatamente esigibile. Ovviamente per realizzare questo occorrerà un impegno da parte dell'amministrazione penitenziaria perché devono essere individuati i locali adatti per quelle che si chiamavano unità abitative, luoghi dove si possono passare ore (almeno una mezza giornata) con la famiglia e per quello ovviamente qualcuno può dire che c'è bisogno di una legge. Ma la legge è depositata: c'è un testo dell'onorevole Magi che fu elaborato dalla società della Ragione e presentata nella scorsa legislatura. Le proposte c'erano e sono sempre state tenute nel cassetto: adesso è necessario che ci siano delle norme chiare perché questo diritto sia realmente praticato. Ci sarà certo una fase di sperimentazione: si può immaginare di cominciare da uno o due carceri. Ma non si può far finta di niente perché altrimenti ci sarebbero dei ricorsi che porterebbero a una sanzione anche a livello europeo per l'Italia».

 

Ma c'è qualcosa di più, a voler leggere meglio la sentenza: «Il diritto all'affettività non è solo per il detenuto ma anche del compagno o della compagna, del marito o della moglie che sono liberi. Negare questa possibilità equivale a negare una dimensione che mette a rischio i rapporti familiari. Questo bisogna dirlo. Si apre oggi a una dimensione di civiltà, umanità veramente nuova. Soprattutto in questi giorni di gennaio che conta già undici suicidi, prova di un carcere malsano».