La repressione delle contestazioni rappresenta il fallimento di un'istituzione che dovrebbe insegnare, dare l'esempio e coltivare la libertà. Mentre i giovani vincono contro gli atenei che impongono tasse troppo alte. Con il solo scudo offerto dalla legge

La violenza come unica soluzione delle controversie. L’ostentazione della forza come schermo di fronte alle critiche, pur aspre, e alle richieste di dialogo. È questo che s’insegna agli studenti e alle studentesse ogni volta che un poliziotto brandisce il manganello o alza lo scudo negli spazi di un ateneo italiano. È il fallimento dell’istituzione universitaria; il tradimento di un luogo nato per garantire la libertà massima di pensiero, di espressione e di sviluppo delle vocazioni personali. Ma è anche un pessimo esempio fornito da chi ha il compito di formare la classe dirigente del prossimo futuro. La quale, con molta probabilità, saprà prendere decisioni più sagge di quelle degli attuali decisori internazionali.

 

Di sicuro, manifestando il dissenso verso scelte politiche che non condividono, i giovani mostrano di avere a cuore il rispetto dei diritti umani e di nutrire la solidarietà universale tra i popoli che i suddetti decisori paiono avere perso o non avere mai coltivato. Mentre si paventa che la contestazione riporti a un clima di tensione – e suonerebbe ridicolo, se non si trattasse di materia drammatica – si dimentica che gli studenti e le studentesse conoscono degli anni di piombo e delle bombe neofasciste più di tanti adulti mistificatori della Storia contemporanea del Paese. E, qualora fosse vero il contrario, toccherebbe pure all’università colmare la lacuna d’informazioni e indicare i canali democratici in cui mantenere l’esercizio della coscienza civile.

 

Semmai, lo spirito di prevaricazione sembra appartenere più a certe alte cariche accademiche che non ai movimenti studenteschi. E lo rivela, plasticamente, una vicenda precedente agli scontri sulle collaborazioni con Israele: la sequenza di ricorsi intentati dall’Unione degli universitari contro alcuni degli atenei che impongono ai loro iscritti una contribuzione superiore a quella consentita dalla legge (le tasse versate dagli studenti non possono superare il 20 per cento del Fondo di finanziamento ordinario, cioè delle risorse messe a disposizione dallo Stato). Nei giorni scorsi, ancora una volta, il Consiglio di Stato ha dato ragione al sindacato e ha condannato l’Università di Torino a restituire 39 milioni di euro a tutti gli allievi.

 

Chi si rivolge ai giudici amministrativi cerca così d’impedire – a beneficio proprio e delle generazioni successive – che l’accesso agli studi diventi un privilegio censitario, a fronte di fondi pubblici sempre più esigui da destinare al settore. Dimostrando che la sola arma da impugnare è quella del diritto.

 

Una lezione, a parti invertite. Una lezione particolarmente significativa, vista la genesi del primo ricorso presentato per l’anno accademico 2010/2011 contro l’Università di Pavia. Quando i rappresentanti locali dell’Udu, sostenuti dagli avvocati Francesco Giambelluca e Massimo Ticozzi, constatarono lo sforamento del limite di tassazione, all’interno dell’organizzazione si aprì il dibattito sul comportamento da tenere. S’iniziò con proteste sotto il Rettorato, nella speranza di convincere l’ateneo a rivedere le percentuali inserite nel bilancio. Risposero le cariche dei reparti antisommossa. Perciò, si portò la questione all’esame del Tar e in quella sede si vinse. In tempi più recenti, invece, studenti e studentesse della Statale di Milano hanno rinunciato alla via giudiziaria dopo una fruttuosa negoziazione.

 

In università i giovani bramano di trovare maestri, non censori dai metodi autoritari.