Fuoriluogo
«È ora di chiudere le carceri minorili»
Le violenze al “Cesare Beccaria” di Milano mostrano l’urgenza di trasformare questi istituti in case d'accoglienza. La detenzione così non ha senso per ragazzi e ragazze. Bisogna che il "dentro" offra alternative che "fuori" non si sono trovate
La crisi del carcere è fuori controllo a causa del sovraffollamento, ai limiti di una nuova condanna della Cedu (Corte europea per i diritti dell’uomo) per trattamenti degradanti, e della catena inarrestabile di suicidi. Le violenze e le torture nel carcere minorile di Milano hanno provocato una indignazione all’altezza dello scandalo. Colpiscono, in questo episodio che ha coinvolto un terzo degli agenti in servizio, non solo la carica di odio razzista e i pestaggi, ma la contraddizione con una pratica di relazioni negli istituti minorili, che erano un fiore all’occhiello; basti pensare che gli agenti non indossavano la divisa. Per fortuna a Milano c’è un garante dei diritti come Franco Maisto che ha visto, al contrario di molti che non capivano il disagio.
Pietro Ingrao metteva in guardia sul fatto che l’indignazione non era sufficiente e poteva costituire un alibi. Si impone una svolta. Politica e culturale subito. Nel 1996, appena nominato sottosegretario alla Giustizia con il ministro Giovanni Maria Flick, ebbi la delega alla giustizia minorile e scrissi un breve articolo su Repubblica, il 16 novembre 1996, intitolato “Si trasformi in casa il carcere minorile”. Sostenevo che la cultura del Paese sicuramente non riconosceva come sensata una concezione della pena repressiva e retributiva contro i minori e condivideva una scelta per privilegiare misure alternative alla detenzione e per offrire una prospettiva di vita diversa.
Gli Istituti penali minorili, al di là del nome, sono ancora, dal punto di vista delle strutture, delle vere e proprie carceri, mentre dovremmo immaginare delle strutture radicalmente diverse (senza sbarre e porte d’acciaio) che facciano pensare a una casa di accoglienza fondata sui valori della convivialità e della solidarietà e che si contrappongano ai miti del potere, della violenza e della ricchezza; insomma, dovremmo realizzare per i minori devianti un “dentro” che sia mille volte meglio di quel “fuori” di degrado e di emarginazione che è alla base di comportamenti di sopraffazione, verso i più deboli, i diversi, le donne.
È un sogno o è una ipotesi praticabile? Certo il clima è cambiato e il decreto Caivano ha impresso una svolta repressiva che ha fatto innalzare i numeri degli arresti in maniera vorticosa. Il risultato sono 495 presenze negli Ipm (217 italiani, 268 stranieri). Per molti anni erano stabili sulle quattrocento unità, negli ultimi due anni sono aumentate di 100. Una quota rilevante è rappresentata da stranieri, ma in molti casi la detenzione non è legata a gravi reati, bensì alle leggi criminogene, come quella sulle droghe e sull’immigrazione clandestina, e alla mancanza di alternative esistenziali fuori dalla prigione.
È l’ora di mettere in campo la chiusura delle 17 carceri minorili. I responsabili di gravi delitti (associazione criminale, violenza sessuale, omicidio) sono un numero limitato e per loro si potrebbe efficacemente esercitare la sfida dell’articolo 27 della Costituzione. Resta il problema dei giovani adulti, che sono 207 (153 tra i diciotto e i venti anni e 54 tra i ventuno e i ventiquattro anni) e che invece di essere catapultati nelle carceri per adulti potrebbero rimanere in alcuni Ipm rivisitati. Non è un’impresa difficile. Più ardua era la chiusura dei manicomi criminali. Occorre investire nella prevenzione e scommettere sulla libertà, sulla responsabilità e sulla comunità.