Abbiamo la responsabilità della miopia. Per cibarci di dettagli o usare occhiali per il contesto

Da Portella della Ginestra a Garlasco, quei delitti irrisolti sono lo specchio di un Paese opaco

Nell’Italia dell’eterno mistero ci sono più verità taciute, versioni di comodo e atti mancati che veri enigmi. E Garlasco non fa eccezione. Non detti, timidezze, omertà. Che assieme a piste improbabili, deragliamenti del senso comune, ricerche obbligate tradotte in eventualità, qui come altrove, rendono tutto, ma proprio tutto, sempre opaco.

 

Un quadro incerto, instabile, suscettibile di revisione. Talvolta, di rado e per fortuna, nelle aule. Sempre, in quell’altrove in cui il dibattito pubblico si fa giudice. Piega la trama alle convinzioni del momento, alle opportunità e, perché no, al tornaconto. Anche politico. Perché, dopotutto, la giustizia non è quasi mai l’obiettivo autentico, ma il bersaglio ultimo di tanto accapigliarsi tra opposte tifoserie. Per difenderne i fondamentali o lapidarla. Magari traendo argomenti per riformarla. In carriere, gradi di giudizio e altri arzigogoli spacciati per rimedi in cui eccellono quanti sono parte del problema e pretendono invece di contrabbandarsi per soluzione.

 

In campo sono i corpi delle vittime a essere relegati ai margini. Giocano invece ruoli da protagonisti, disputandosene i resti, giudici quantomeno distratti, coerentemente ostinati nella difesa delle proprie antiche certezze, detective dalla doppia vita, consulenti a committenza variabile, avvocati lesti a infilare le porte girevoli che dalla toga portano al seggio. Pronti a calciare in proprio o a suggerire la strategia più sottile ai potenti di consorterie alle quali sono iscritti di diritto o cooptati per reciproche convenienze.

 

Il grumo di interessi in quel lembo di provincia  pavese un tempo floridissima fa da sfondo a un delitto insensato, semmai un delitto avesse un senso. Ma spiega molto delle ritrosie e delle prudenze di magistrati e investigatori preoccupati allora di spegnere in fretta quel fascio di luce acceso ad abbagliare una periferia che si voleva placida e riparata.

 

L’Italia che affonda parte della propria storia nell’irrisolto, da Portella della Ginestra in poi, non riesce quasi mai a scrivere un vero finale neppure per la maggior parte di quelli che la cronaca chiama gialli. Un’infinita galleria di cold case. Delitti borghesi. Omicidi, femminicidi, in cui il colpevole, provvisorio, non è l’altro, il diverso, lo straniero, il criminale da esecrare, ma l’uomo normale, lo stimato professionista, il ragazzo perbene. Qualità che l’inchiodato di turno condivide con la schiera dei sospettati.

 

È lì che il pugno della legge indossa spesso il velluto fino a farsi piuma. Fluttua leggero tra mille prudenze, si nutre dell’alito delle omissioni, ondeggia tra ciò che avrebbe dovuto essere e ciò che non si è fatto per planare su nessuna verità o una, qualunque, purché sia. Elementare, se è possibile, perché il resto, tutto il resto, resti confinato nel limbo delle ipotesi di contorno.

 

Troppo facile bersagliare con l’accusa di immorale, morbosa, rincorsa al macabro i media che nutrono la curiosità del pubblico. Spartendoselo in fasce orarie e format per competenza, attitudini, perfino vizi da coccolare. Non c’è induzione allo stordimento, ma la riproposizione di uno specchio di un Paese, in cui ciascuno di noi conserva la responsabilità della propria miopia. Per cibarsi di dettagli o inforcare occhiali per guardare al contesto.

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