
Oltre il grande parcheggio Brin, con quello scivolo che sembra una giostra, e la filiera di palme a centro strada. Una grande rotonda rallenta il passo e segna il confine. A sinistra, giganti e grigi, i cilindri numerati dell’area di stoccaggio della Q8. Sito d’interesse nazionale. Zona altamente inquinata e da bonificare, mare non balneabile. Subito dopo, tra le curve a gomito della tangenziale, decine di container rossi, blu, marroni, impilati in un Tetris. Ciminiere sparse, un corso con i palazzi bassi ai lati, un parco giochi con le altalene e gli animali a dondolo, all’incrocio con un grande bar. È lì che iniziano le pattuglie della polizia. Gli agenti in stivali scuri e radiotrasmittente nelle tasche, al bancone del caffè. È lì che inizia il rebus di Napoli Est, che non è proprio una città a parte e che non è ancora hinterland. L’ex area industriale napoletana, con i quartieri popolari addosso e la bellezza delle ville vesuviane a due passi, dove oggi ha preso casa un pezzo della camorra metropolitana. Ancor più quando si sono accesi i riflettori su Scampia. E Napoli Est è diventato un luogo più sicuro per fare affari un po’ nascosti. Eppure è anche uno spazio di resistenza, orgoglio e riscatto. Una specie di laboratorio clandestino di pratiche, politiche, contaminazioni dove brillano tra le esperienze migliori del civismo nazionale. A chiamarla per nome, a Napoli, questa è la sesta municipalità. Oltre 100 mila abitanti.
Tre quartieri attaccati: San Giovanni a Teduccio, Barra e Ponticelli. Il “triangolo rosso”, si diceva un tempo. I portuali a San Giovanni, gli operai delle fabbriche a Barra, i braccianti a Ponticelli, a coltivare vigneti e campi di pomodori. La Napoli di sinistra passava da qui. E conviene passare da qui ancora oggi per cercarla di nuovo. Una sinistra terrestre, a dire il vero. Che sinistra non vuole neanche più essere chiamata. Civica, spuria, no logo. Dialettale, concreta e verace. Che chiude i circoli di partito e occupa i teatri, le scuole, le associazioni. Telefona ai rapper, agli scrittori, ai graffitari e li convoca al lago. Anche se il lago non c’è più, è rimasta solo una vasca di cemento buona per il jogging e il pattinaggio, al centro del Parco Massimo Troisi. Sullo sfondo, i palazzi della Taverna del Ferro. Quello che qualcuno ancora chiama “il Bronx”, con l’enorme Maradona disegnato dallo street artist Jorit, a fare il paio con l’enorme Che Guevara dall’altra parte (e un murales più piccolo e nascosto, all’interno, di Pablo Escobar). Popolo e rivoluzione. E la presenza pervicace, sfrontata dell’illegalità che non si sposta. E allora la rete di Napoli Est la circonda. Le mamme del centro minori in fondo alla strada e i professori del Campus di ingegneria. Gli artisti del teatro occupato NEST e i preti delle parrocchie. Gli anziani della Società Operaia di Mutuo soccorso, gli allenatori delle giovanili di calcio e i presidi delle scuole. Una rete informale ma sostanziale, sempre più organizzata. Ogni tanto qualcuno prova a strapparla, la rete. E gli spara addosso.

Come è successo una domenica di metà settembre, pochi giorni fa, davanti al portone della Fondazione Famiglia di Maria, il centro diurno dove vanno i bambini, i ragazzi e le mamme del quartiere. Una specie di bandiera anti camorra, piantata al centro di San Giovanni. La presidente della Fondazione è Anna Riccardi, 42 anni, professoressa di lettere in una scuola superiore del quartiere intitolata a Rosario Livatino, il “giudice ragazzino”. Sorridente, sempre: scarpe da ginnastica, magliette colorate, k-way. Promotrice di un calendario martellante di iniziative. Troppe, per chi non vuole luci accese. «Ci siamo svegliati e abbiamo trovato un foro nel muro. La prima preoccupazione è stata quella di cancellarlo, perché non dilagasse la paura tra i bambini. Allora abbiamo disegnato i petali di un fiore attorno al foro. Come se quella pistola avesse sparato un fiore per noi, per loro. Che sono il futuro di Napoli Est. Da cui dipende cosa succederà qui fra dieci, vent’anni», spiega Anna. «Sappiamo di essere sulla strada giusta, ma sono strade che non si possono percorrere da soli. Ora serve un cordone di solidarietà che duri nel tempo. Ognuno deve fare la sua parte. Serve disarmare la città. Il nuovo Governo prenda subito in mano la situazione e si occupi con urgenza di periferie, infanzia, bambini».
Ogni giorno, Anna e la sua squadra seguono 120 minori della zona, con un affidamento del Comune di Napoli. Fanno attività di doposcuola e contrasto alla dispersione scolastica, ma anche laboratori di cinema, teatro, arte, educazione ai sentimenti. Con la scrittrice Valeria Parrella e l’associazione Sepofà, Anna ha messo su una biblioteca e un progetto-lettura. Con l’assessora alla socialità Roberta Gaeta ha inaugurato il murales sulla Fiducia dell’artista Roberto Matlaklas - 37 anni, straordinario performer di adozione londinese, originario di Scampia, che ha lavorato quattro giorni con i bambini, a inizio estate, in un progetto di arte sociale partecipata - proprio di fronte al grande Maradona. «È il primo di 26 murales con cui stiamo dipingendo i muri della città. Ognuno è legato a un progetto di educativa territoriale. L’idea è quella di portare i giovani con fragilità dalla rassegnazione al protagonismo. Non fare le cose per loro, ma con loro, che collaborano con gli artisti alla progettazione del disegno», spiega Gaeta.
Intanto le mamme del quartiere, insieme alla Fondazione di Anna Riccardi e a quattro scuole della zona, hanno attivato il progetto “Wonderwù”, un’eroina che distribuisce i suoi superpoteri ai maschi, per lavorare sulla lotta alla violenza di genere, in una zona in cui la violenza domestica è una realtà silente e diffusa. E, a inizio luglio, è stata inaugurata anche la prima aula digitale del centro, dove da settembre i professori dell’Università Federico II inizieranno dei corsi di cultura digitale ai bambini e ai ragazzi della Fondazione. «Stiamo provando a spiegare ai ragazzi che i telefonini non conviene rubarli, per farci al massimo 50 euro, ma è meglio imparare a programmarli. Si impara un mestiere e si guadagnano molti più soldi», scherza (ma non troppo) Antonio Pescapè, 48 anni, professore universitario di Ingegneria informatica e direttore della Digita Academy, un centro di alta formazione post universitaria che ha sede nel vicinissimo campus-astronave insediato dall’Università Federico II nei capannoni della ex Cirio. Qui, insieme all’Università, hanno messo le tende partner come Apple, Deloitte, Ferrovie dello Stato. «L’esperienza del Campus di San Giovanni sta provando, da qualche anno, a mettere Napoli Est al centro della rivoluzione digitale italiana. Con la Digita Academy, ad esempio, formiamo ogni anno 50 digital distruptor: esperti di transizione digitale aziendale, una figura molto richiesta sul mercato. Rafforzare le competenze sulla blockchain, il cloud computing, l’intelligenza artificiale oggi significa spalancare opportunità di lavoro. Qui nel meridione, da cui secondo lo Svimez scappano più di 30 giovani al giorno. L’Apple Center, poi, è uno dei più importanti investimenti americani in Europa», spiega ancora Pescapè. «Non è un caso che tutto questo avvenga a San Giovanni, provando a ridisegnare davvero la riconversione economica dell’ex area industriale attraendo sul territorio investitori nazionali e internazionali del settore digitale»”.
Sale e scende la speranza, a Napoli Est, se si pensa che per ogni tentativo riuscito c’è una crisi dietro l’angolo. Come quella della Whirlpool, forse la crisi più simbolica che infiamma in questo momento il Paese (e l’avvio del Conte Bis).
La fabbrica al centro delle cronache ha sede qui, non lontano dai container del Porto e dal casello della tangenziale che dista pochi minuti da casa di Luigi Di Maio a Pomigliano. «Se chiude la Whirlpool, chiude Napoli Est», ripetono dal picchetto i 400 lavoratori, tra cui moltissime donne, che di riconversione da polo produttivo a distretto di logistica, con tanto di tagli al personale, non vogliono sentire nemmeno parlare. Quasi tutti abitano da queste parti. E mentre ai cancelli della fabbrica continuano le staffette di solidarietà, Napoli Est cade e si rialza di continuo e moltiplica le esperienze di protezione sociale e promozione culturale diffusa che provano a togliere alla zona il marchio a fuoco di periferia disperata. La periferia della “stesa”: colpi di pistola in aria, a cavallo del motorino, per segnare le regole di un’altra legge, dare simbolo e rumore al potere che conta. Sul pericolo-stese è arrivato l’allarme del senatore Vincenzo Presutto, Movimento Cinque Stelle, residente ed eletto a San Giovanni a Teduccio, che in questi giorni ha scritto una lettera indirizzata al neo Ministro dell’Interno, Luciana Lamorgese, descrivendo una vera e propria emergenza incolumità.
«Sotto casa mia si spara con regolarità disarmante. Raffiche di pistola contro macchine, balconi», denuncia il senatore. E sale lo spavento. Perché se qualche colpo finisce per aria o sul muro, qualche altro, a volte, centra il bersaglio. Come il 9 aprile scorso, davanti a una scuola: un morto ammazzato, in pieno giorno, nella guerra fra clan. Il panico tra le famiglie, i docenti, i bambini: risposta forte e chiara. Arresti illustri, qualche settimana dopo. Una bella marcia popolare, a inizio maggio. «C’erano in piazza i giovani, le parrocchie, tutto il quartiere perbene. Un segnale fortissimo», ricorda don Fulvio Stanco, 32 anni, il vice parroco della chiesa di Sant’Anna a Barra. Ma la preside della scuola davanti a cui è avvenuta la sparatoria (800 studenti e 80 docenti), Valeria Pirone, 47 anni, non usa mezzi termini: «Il Rione Villa è ancora il cuore dei clan e non è presidiato a dovere. Anche a via Sorrento, dove ha sede la nostra scuola, avevano sparato già a settembre, pochi giorni prima dell’inizio della scuola. E ad aprile c’è stato il morto. Ma le forze dell’ordine spesso sono altrove. E io ho i docenti che fanno domanda di trasferimento. Anche quest’anno, a scuola iniziata, ho difficoltà a fare gli organici. Un continuo turn over, perché anche gli insegnanti, oltre che le famiglie, hanno paura a stare qui. Questo è considerato un luogo di lavoro insicuro».
Nessuno, però, si arrende. Si sposta di un centimetro. Si fa prendere dallo sconforto e dal disamore. «Dieci anni esatti fa ho occupato la palestra della scuola media dove studiavo da ragazzo. Ho smontato i canestri con il cacciavite, piano piano ci abbiamo fatto un teatro. Oggi abbiamo una scuola, un cartellone annuale. Vinciamo concorsi, collaboriamo con i grandi del settore: Toni Servillo, Mario Martone», dice con orgoglio Francesco Di Leva, 41 anni, attore e fondatore di NEST, officina teatrale da 100 posti a sedere. Una delle prime esperienze di riuso dei beni comuni napoletana. E intanto anche la politica prova a fare un investimento forte sul quartiere. Il sindaco Luigi De Magistris a Napoli Est è di casa.
Ed è proprio di Barra uno dei suoi assessori di punta, Ciro Borriello, 47 anni. Figlio di un operaio del metallurgico, cresciuto tra le case popolari del quartiere rosso, parte dai Verdi e fonda a Napoli Sel. Oggi è lui uno dei leader di Dema, il movimento che attorno al sindaco prepara il grande salto nazionale. Non prima di aver superato lo scoglio delle regionali. «Stiamo pensando a una Lista Civica di Dema in Regione. È un passaggio troppo delicato per non metterci alla prova come movimento, sperimentando la nostra forza fuori dalla città dove abbiamo governato per un ciclo lungo e importante. Certo: in Regione veniamo da anni deludenti. È stato impossibile dialogare con il PD dell’armata De Luca, trasversale e imbottita di pezzi di centrodestra, colonnelli di voti e campioni di clientele», dice Borriello, senza mezze misure. «Lo scenario politico però sta cambiando e l’asse nazionale Pd-Cinque Stelle potrebbe comportare anche per il Pd locale un cambio di marcia. Fino a far saltare una nuova candidatura di De Luca, opzione che fino a qualche settimana fa sembrava impensabile. Se questo dovesse accadere, ragionare in un’ottica di campo largo può e deve essere una strada anche per noi».