Recuperati dagli abissi marini a più di 3.500 metri di profondità, quei pezzi di aereo sembrano quasi parlare agli esperti. Raccontano cosa hanno subito, come e perché sono stati deformati. Lo spezzone che per gli studiosi è il più importante, il reperto rivelatore, oggi è collocato proprio all’ingresso del museo della memoria di Ustica, a Bologna, dove è stato ricomposto il DC-9 precipitato in mare la sera del 27 giugno 1980. La punta dell’ala destra è segnata da urti e strisciate. È il primo troncone metallico, il più vicino ai visitatori che entrano a vedere lo scheletro dell’aereo civile con la scritta rossa Itavia, a commemorare le 81 vittime. Sembra un messaggio: forse la verità è sotto gli occhi di tutti, basta saperla guardare.
La strage di Ustica non è un mistero. È vero che i processi penali si sono chiusi senza alcuna condanna. E in queste settimane la Procura di Roma ha chiesto di archiviare anche le ultime istruttorie. «Ma anche queste indagini riconfermano la verità ormai accertata nei processi civili, con diverse sentenze definitive: è stata un’azione di guerra in tempo di pace, una strage inconfessabile», spiega Daria Bonfietti, presidente dell’associazione dei parenti delle vittime, che nella tragedia ha perso il fratello Alberto, giornalista. Al suo fianco, nel capannone trasformato in museo, c’è il suo compagno Andrea Benetti, con cui elenca le piste rivelatesi infondate: dalla bomba terroristica alla falsa tesi del «cedimento strutturale», che provocò il fallimento dell’incolpevole compagnia Itavia. Nei giardini all’ingresso c’è un omaggio ad Andrea Purgatori, il giornalista che aprì la prima breccia nel «muro di gomma» dei depistaggi. Le sentenze civili confermano che il DC-9 fu abbattuto da un aereo militare, ma lasciano aperte due alternative: un missile o un passaggio troppo ravvicinato, la cosiddetta «quasi collisione». Si è parlato di un caccia statunitense, di un missile francese (è la tesi proposta da Francesco Cossiga e Giuliano Amato), perfino di un aereo israeliano (secondo un libro-inchiesta di Claudio Gatti), ma anche le ultime indagini non hanno portato certezze. Alcuni studiosi continuano però a lavorare su Ustica, da più di trent’anni.
Unendo mille tasselli, hanno messo insieme una ricostruzione che è molto più di un’ipotesi: si fonda sui reperti, su elementi concreti. Le loro conclusioni confermano lo scenario di guerra aerea, ma con una dinamica inedita: la collisione. Un caccia che investe il DC-9, con una manovra incontrollata, mentre sta inseguendo un aereo nemico. Gli esperti ne discutono da tempo, ne parlano nelle università. Nei loro ultimi incontri c’è un ospite d’onore: il professor Donato Firrao, un luminare del Politecnico di Torino, che nel 1993 ha firmato la perizia che ha smontato la teoria dell’attentato terroristico. «Non abbiamo trovato la minima traccia di esplosione in nessun frammento metallico del DC-9», riassume oggi. È il dato di fatto che smentisce la bomba interna, ma indebolisce anche la tesi del missile esterno. Già trent’anni fa la sua perizia segnalò una particolare deformazione di un’ala che poteva far pensare a una collisione, ma il suo spunto fu lasciato cadere. Negli ultimi anni Firrao si è rimesso a lavorare sui reperti e ora sta spiegando a un gruppo di ingegneri e studiosi cosa ha scoperto. Mostra l’immagine della punta dell’ala destra e la commenta: è «schiacciata su più lati», segnata da «urti, ammaccature, strappi, strisciate» con una caratteristica mai notata prima. «Come vedete, sono rivolte verso la prua dell’aereo». Silenzio. «Quindi non sono lesioni provocate dall'impatto contro la superficie del mare, ma da una collisione precedente, in direzione opposta». È una svolta assoluta. L’aereo di Ustica è caduto in mare in picchiata, invece questa parte dell’ala ha subito danneggiamenti in senso contrario. «Questo è un dato incontrovertibile», scandisce lo scienziato dei metalli.
Al suo fianco ci sono due esperti ingegneri aeronautici, Ramon Cipressi e Marco De Montis, che studiano da trent’anni la strage di Ustica. Hanno vagliato tutti gli atti giudiziari, compresa la perizia di Firrao, con quel primo accenno alla collisione. Da allora hanno continuato ad accumulare indizi. «La collisione spiega tutto: ogni dato è come un tassello che si inserisce perfettamente nel mosaico», riassume De Montis. I due ingegneri hanno trovato anche un precedente caso di collisione con 49 vittime civili: un DC-9 partito da Los Angeles, il 6 giugno 1971, è stato investito e abbattuto da un caccia F-4 dei marines. L’ingegner Cipressi mostra altre immagini: almeno cinque aree del DC-9, con le tracce di altrettanti colpi e urti distribuiti su una traiettoria lineare, da un’ala all’altra. «Sono le impronte lasciate dal caccia che lo ha in- vestito e abbattuto», riassume. Il primo impatto è proprio quello che «deforma la punta dell’ala destra». Il contatto prosegue con «scalfitture che corrono sotto la stessa ala», sempre in direzione del muso del DC-9. In sequenza viene lesionata la parte destra (guarda caso) del carrello d’atterraggio: da notare che «il danno è localizzato, le ruote restano intatte e non c’è traccia di esplosione». Eppure, «un frammento viene strappato e finisce nella gamba destra di una passeggera». Quel pezzo di metallo è stato «tranciato e scagliato verso la prua da una forza meccanica, simile a una martellata fortissima».

Poi, nella parte inferiore della carlinga, «i due cavidotti di potenza vengono tagliati di netto, sempre da destra a sinistra», prosegue Cipressi. «Quindi nell’aereo civile si spegne tutto; questo spiega perché la voce del co- mandante s’interrompe bruscamente». L’ul- timo urto fra i due aerei «danneggia l'ala sinistra che si frattura». Sono le ore 20,59 minuti e 45 secondi. Il DC-9 inizia subito a «destrutturarsi». La morte dei 77 passeggeri e delle 4 persone dell'equipaggio è quasi istantanea. Questi sono gli ultimi tasselli trovati dagli esperti. I precedenti, che disegnano l’intero mosaico, vengono messi in fila grazie ai dati raccolti dal giudice istruttore Rosario Priore e dalle successive indagini, convalidate dalle sentenze civili.
La sera del 27 giugno 1980 è in corso un’operazione militare che coinvolge almeno due «cacciabombardieri F-111 con capacità nucleare», spiegano gli ingegneri. Sull’Italia centrale volteggia un E-3 Awacs, un aereo-spia statunitense che ha un radar eccezionale. Il DC-9 decolla da Bologna alle 20 e 08, con due ore di ritardo. È un ritardo fatale. In quei minuti entra nello spazio aereo italiano un intruso, che De Montis descrive così: «È un Mig-23, arriva dalla Jugoslavia, probabilmente è di ritorno da un’officina aeronautica attrezzata alle riparazioni». Allora i radar civili avevano un’approssimazione di un chilometro. «Se un aereo è a meno di mille metri da un altro, i controllori ne vedono uno solo», chiarisce Cipressi: «In questo modo, un caccia poteva nascondersi volando in prossimità di un aereo civile. È la tecnica del masking», il mascheramento. All’epoca la Libia era un Paese nemico, legato al blocco sovietico, ma aveva un rapporto privilegiato con Roma. Quei sorvoli mascherati, secondo gli esperti, in Italia non destavano allarme, infatti anche quella sera «il Mig era disarmato».
Il caccia libico arriva all’altezza di Firenze alle 20 e 22, quando dovrebbe incrociare un aereo civile di Malta, destinato a fornire l’in- volontaria copertura verso la Libia. Ma anche il volo dell'Air Malta è in ritardo: è ancora a 80 chilometri da Firenze. Dove compare invece il DC-9 dell’Itavia: l’aereo sbagliato che arriva al momento sbagliato nel posto giusto per il Mig, che non può aspettare e gli si accoda. Ma la sua presenza non è sfuggita all’Awacs. Gli F-111 vengono fatti atterrare ad Aviano e Grosseto, mentre scatta la ricerca dell’intruso. In volo c’è già un caccia italiano che sta rientrando a Grosseto con i piloti Mario Naldini e Ivo Nutarelli. Moriranno entrambi nel 1988 nel tragico scontro tra le Frecce Tricolori a Ramstein. Quella sera sono i più vicini all’intruso, quindi i primi a poterlo identificare. Infatti «deviano la rotta per 150 gradi e seguono il DC-9 per otto minuti, tenendolo sempre a ore 10, che guarda caso è una tipica visuale d'osservazione», fa notare Cipressi. A partire dalle 20 e 25, i piloti italiani lanciano tre segnali di «allarme generale»: codice 7300. Nelle basi della Nato scatta l’emergenza: si teme un attacco nemico. Da Grosseto partono altri due caccia italiani, che danno il cambio a Naldini e Nutarelli, ma poi ri- entrano. Da Solenzara, in Corsica, decolla- no almeno due Mirage francesi. Da Decimomannu, in Sardegna, partono gli F-15 della squadriglia Bulldogs. Impossibile sapere che missioni abbiano compiuto: i vertici militari Usa hanno dichiarato che i registri della base, proprio il 27 giugno, sono andati perduti. Gli aerei più vicini al DC-9 sono però altri caccia in dotazione alla portaerei americana Saratoga, che è nel golfo di Napoli.
Lungo l’aerovia Ambra 13, fra le isole di Ponza e Ustica, c’è una zona d’ombra, al limite della portata di tutti i centri radar. In codice si chiama Punto Condor. Proprio lì inizia la battaglia. Già trent’anni fa i periti aeronautici di Torino identificarono le tracce radar di due aerei che, dopo aver viaggiato per diversi minuti su una rotta parallela al DC-9, fanno un’improvvisa virata e gli puntano contro, a 90 gradi. «È chiaro che stanno intercettando l’intruso», commenta De Montis. I due caccia misteriosi incrociano la rotta dell’aereo civile alle 20,59 minuti e 45 secondi. Nello stesso momento «il DC-9 viene spinto con la prua verso l’alto di 60 gradi e imbarda di 15 a sinistra». Poi si spezza in due tronconi che cadono in mare. Restano però visibili altre tracce di almeno due aerei ancora in volo. Nella scatola nera sono rimaste registrate le ultime parole del comandante Gatti, rivelate nel 2013 da un’inchiesta di Rainews24: «Guarda... Cos’è?».
*La seconda parte dell'inchiesta, quella sulle prove sparite dai depositi militari, prosegue qui. Su Spotify e YouTube, invece, è disponibile la versione podcast.