Hanno meno di 30 anni, incrociano sentimenti e lotta di classe. Da Rooney a Louis: è il tempo dei narratori sociali 

Eduard Louis
Lui le ha detto che avrebbe dovuto provare a leggere il Manifesto del partito comunista, pensava che le sarebbe piaciuto, e si è offerto di scriverle il titolo perché non lo dimenticasse. So come s’intitola il Manifesto del partito comunista, ha detto lei». Connell e Marianne sono nati negli anni Novanta, come la scrittrice che ne racconta le disavventure amorose: Sally Rooney, irlandese, classe 1991. Ha all’attivo solo due romanzi - “Parlarne tra amici” e “Persone normali”, pubblicati in Italia da Einaudi - ma sono bastati per farsi notare. Con un’etichetta editoriale facile, si è detto che racconta la sua generazione. Più interessante è capire come. La prosa è asciutta, nervosa. La trama in sé, tutto sommato, conta meno dei personaggi. Che Rooney inchioda alle loro ambiguità, fragilità, inadeguatezze con mano di smagliante ritrattista. Il fatto è che li lascia chiacchierare parecchio, fino quasi all’estenuazione. È così che il lettore li conosce, li scopre, li stana: ascoltandoli - come fosse il loro vicino di tavolo in un pub. E, qualunque età abbia, si può fare un’idea di come siano i ventenni attuali. Tanto più se si dicono marxisti. Ma come? Non era finito il tempo delle ideologie? Non erano, i millennials, i post-ideologici? A dire il vero, questi ultimi, ultimissimi nati nel ventesimo secolo sembrano meno insofferenti (o indifferenti) rispetto alle patenti politiche di quanto lo siano i loro fratelli di poco più grandi. Così, verrebbe da dire che gli ultimi scrittori novecenteschi hanno preoccupazioni nuove, ovvero antichissime.

«Da marxista sono scettica sull’industria editoriale, primo perché è un’industria…», ha spiegato in un’intervista, senza ironia, Sally Rooney. Secondo? «Secondo, perché, se i prodotti creano un profitto, allora non stanno facendo il lavoro che dovrebbero fare: cambiare la struttura delle relazioni sociali». La struttura delle relazioni sociali. I bisnonni sorridono? Può darsi. Ma qui non si tratta di impegno o disimpegno: si tratta di “visione” complessiva, di un preciso sentimento del mondo. Quando Rooney insiste sulla volontà di «esplorare come il liberismo influisce sulla nostra maniera di amare» può provocare qualche ghigno perplesso, ma sta rimettendo in gioco un lessico - o meglio, un modo di pensare - che pareva archiviato in soffitta da decenni.

Gente nata dopo la caduta del Muro parla di Marx e di liberismo? Fa di più: scrive storie - storie d’amore, per dire - in cui si avverte il peso della differenza di classe. Non era sparita anche quella? «Esistono ancora le classi sociali?», si domanda il rapper scozzese Loki, nome d’arte di Darren McGarvey nel reportage narrativo “Poverty Safari” (Rizzoli), che prova a raccontare i «tagliati fuori dal mondo». La risposta è sì. E non è detto che lo si avverta esclusivamente nelle cosiddette periferie disagiate. Rooney parla di studenti del Trinity College a Dublino, e tuttavia anche lì le differenze possono pesare. «Ha a che fare con il capitalismo, ha detto. Già. Come tutto. È questo il problema, no? Lei ha annuito. Lui ha alzato gli occhi per guardarla, come uscendo da un sogno».

Figlioli miei, marxisti (non) immaginari. Una coetanea francese di Sally Rooney, Marion Messina, racconta in “Falsa partenza” (La Nave di Teseo) una ragazza di provincia (anche in Rooney si insiste parecchio sulla provenienza: «A Dublino capita spesso che la gente accenni all’Irlanda dell’ovest con questo strano tono di voce, come se fosse un paese straniero»). Aurélie ha alle spalle una famiglia operaia. Incontra un ragazzo colombiano, Alejandro, che studia letteratura in Francia, «cresciuto con una certa idea dello scrittore geniale e precario». Esistenza bohémienne dal punto di vista finanziario e tutto sommato noiosa: «Il suo computer ronfava ventiquattr’ore su ventiquattro, sempre occupato a scaricare un porno o a craccare musica dei Radiohead». Siamo dunque indietro di qualche anno, ai primi segnali della grande crisi economica. Le radici operaie di Aurélie si colgono, stando a ciò che nota Alejandro, nei dettagli: «lo smalto di qualità scadente che si staccava dopo venti minuti di lavoro, le mutandine in cotone grezzo e a piccoli motivi ridicoli, comprate in stock».

Impressiona la descrizione che Messina fa della platea studentesca nell’aula universitaria - «un’immagine onesta e non truccata della diversità “alla francese”, concetto che tutti evocano senza averlo mai sperimentato». Si vedono, testualmente, i «figli di borghesi integrati nella società dei consumi», smartphone ultimo modello, «visi più che accettabili, nessuna paura del futuro, occhi brillanti di sicurezza». Poi, ecco i «figli della destra che invecchiava, che a diciotto anni ne dimostravano tredici o cinquanta - a seconda della luce». Schiena curva, un senso di attesa permanente. Aurélie si sente parte del «settore degli elementi neutri»: «i piccoli Bianchi dagli occhi bassi e dalle braccia incrociate che sudavano di disagio, mentre tutto l’edificio era stato progettato per preparare il loro arrivo sui famosi banchi dell’università». Ecco. Come Rooney, Messina racconta il riflesso della provenienza sociale non solo nell’abbigliamento e nel linguaggio, ma perfino nel modo di fare sesso. «Non cercava il godimento ma la fiducia, che era ben più difficile da trovare». In ogni caso, «l’uguaglianza delle possibilità diceva solo che la lepre e la tartaruga disponevano delle stesse possibilità sulla linea di partenza».

Che cos’è, di preciso, l’emancipazione sociale in Occidente nei primi decenni del ventunesimo secolo?
Verrebbe da chiedersi se questi nuovi “narratori sociali” abbiano letto Dickens, Balzac e Zola. Studiare la formazione degli ultimi autori novecenteschi non è semplice: scrivono romanzi, ma non è detto che il romanzo sia al centro dei loro interessi creativi. Per esempio, stando al drappello italiano, cosa legge, cosa vede l’esordiente Giovanni Bitetto, del ’92? Mette in scena la dialettica fra uno scrittore nichilista e un filosofo - guarda caso - marxista nel romanzo “Scavare”, in uscita per le edizioni Italosvevo. E le scrittrici italiane di origine africana incluse da Igiaba Scego nell’antologia “Future”, in uscita da Effequ? Leaticia Ouedraogo, nata nel ’97, dice: «Siamo minoranza, nello specifico una minoranza di neri africani o negri di merda». E ancora, il “distopico-politico” Adil Bellafqih (“Nel grande vuoto”, Mondadori)? Nato a Sassuolo nel ’91, madre italiana, padre marocchino, narra un’umanità smemorata e in maschera tra fake news e “spazzini” della Rete. Ha studiato Nietzsche, Jung e Stephen King.

Raccontandosi al magazine settimanale di “Le Monde” che gli dedicava la copertina la scorsa estate, lo scrittore francese Édouard Louis, nato nel ’92, cita filosofi come Pierre Bourdieu e cantanti, evoca Simone de Beauvoir e Hervé Guibert. Figlio della classe operaia, ha esordito poco più che ventenne con “Il caso Eddy Bellegueule”, raccontando la vergogna e il disprezzo per i suoi natali umili. Nell’ultimo libro, “Chi ha ucciso mio padre?” (Bompiani) - l’anno prossimo nei teatri italiani con l’adattamento di Deflorian/Tagliarini - quasi rovescia la prospettiva iniziale. Manifestando, di fronte alla malattia del padre, disagio verso la propria stessa ascesa sociale e intellettuale. Il figlio ha trovato la possibilità e le parole per raccontare la sua vita; il padre, invece, resta in silenzio. «Il mese scorso sono venuto a trovarti nella cittadina del Nord in cui vivi adesso. È una città brutta e grigia». Non è una lettera, ma una confessione, uno sfogo. Vede suo padre affaticato, che di notte ha bisogno del respiratore e cammina male. «Hai poco più di cinquant’anni. Appartieni alla categoria di uomini a cui la politica riserva una morte precoce». Sessanta pagine che turbano: Louis non risparmia niente nel fare i conti col padre («Per tutta l’infanzia ho sperato nella tua assenza»), ma sa che, da figlio cresciuto, il vero grande assente è stato lui stesso. L’imbarazzo, la vergogna, la violenza, l’infelicità: Louis ha provato a fuggire da questo, se n’è andato. Il padre è rimasto là. Ostaggio di un’esistenza “negativa”: «Non hai avuto i soldi, non hai potuto studiare, non hai potuto viaggiare, non hai potuto realizzare i tuoi sogni». Ma la biografia negativa di questo padre non può tacere i nomi di chi ha governato la Francia: «Hollande, Valls, El Khomri, Hirsh, Sarkozy, Macron, Bertrand, Chirac. La storia della tua sofferenza porta nomi e cognomi. La storia della tua vita è la storia di queste persone che si sono succedute per abbatterti.».

Louis parla di lotta di classe, di lotta di genere. Pensa alla politica come distinzione fra la parte della società a cui si riserva sostegno, incoraggiamento e protezione e quella esposta alla morte e alla persecuzione. In una scena commovente del libro, il padre porta al mare la famiglia per festeggiare i cento euro di aiuto economico per il nuovo anno scolastico. «Non ho mai visto», commenta Louis, «le famiglie che hanno tutto andare a vedere il mare per festeggiare una decisione politica, perché la politica a loro non cambia quasi nulla… Per i dominanti la politica è nella maggior parte dei casi una questione estetica: un modo di pensarsi, un modo di vedere il mondo, di costruire la propria persona. Per noi, era questione di vita o di morte».

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