L’autorità è invece un concetto che si evolve e che è aperto al cambiamento. E proprio differenza fra i due termini aiuta a comprendere i primi provvedimenti del governo Meloni e cosa attendersi in futuro

Dei quattro provvedimenti del governo Meloni: il reintegro immediato dei sanitari No Vax, e l’introduzione del nuovo reato d’invasione di terreni ed edifici, indicano - come ha ben chiosato Luigi Manconi - la rotta del governo della Fiamma verso un libertarismo reazionario «insofferente verso regole e vincoli»; e insieme una nuova direzione autoritaria «che inventa un nuovo reato e lo trascrive in una norma, priva di quel requisito di tassatività richiesto dallo Stato di diritto».

 

Rotto in parte lo charme, la Meloni, dismessa la maschera, ha mostrato il volto. Ed è un volto supponente e autoritario. Siccome nei mesi a venire avremo da fare per definire il confine tra autorità e autoritarismo, non dovendo abbandonare alla Destra una parola chiave come «autorità», è bene riassumere in pillola il significato della parola ed il suo mutamento.

 

Negli anni Ottanta un sociologo ma anche musicista, violoncellista di formazione, Richard Sennett, si è occupato dell’autorità distinguendo la buona dalla cattiva; sostenendo che l’arte, la musica soprattutto, offre modelli di buona autorità. Per Sennett l’autorità non è mai statica, definita, fissata una volta per sempre, come invece pretenderebbe il potere politico autoritario. La buona autorità è quella che si mette perennemente in discussione, in metamorfosi, in cambiamento. Per Sennett, gli artisti e soprattutto i musicisti, dal direttore agli esecutori, si mettono continuamente in discussione. È soprattutto il direttore che agisce un diverso modo d’interpretare l’autorità, una buona autorità, capovolgendo così la lettura che ne dà Elias Canetti.

 

È seducente questa idea dell’autorità in trasformazione, anche perché appare legata ad un’altra idea di Canetti, l’idea del potere come antimetamorfosi. L’autorità che nega la sua istanza al mutamento si congela nel potere totalitario che è appunto l’antimetamorfosi per eccellenza. Autoritario sarebbe allora ciò che congela la dinamica, la mutevolezza dell’autorità?

 

Questa rivalutazione dell’autorità, che non dimentica la natura sociale e l’asimmetria sociale - analizzata da Marx - della relazione tra chi gestisce o incarna l’autorità e chi l’accetta o la subisce, avviene dopo due secoli di dismissione concettuale a partire dall’illuminismo, dalla negazione dell’autorità come tradizione, dal processo di secolarizzazione della modernità, dall’uccisione del padre.

 

A metà degli anni Trenta - all’inizio della risolutiva caccia all’ebreo - la scuola di Francoforte: Horkheimer, Marcuse e Fromm con gli Studi sull’autorità e la famiglia, che troveranno il loro compimento nel monumentale lavoro di Adorno “La personalità autoritaria” del 1950, denunciò come ideologia, cattiva rappresentazione, l’idea dell’autorità introiettata come libertà, portando alle sue estreme conseguenze la teoria del carattere di feticcio delle merci analizzato da Marx. L’autorità diviene autoritaria prosciugandone la libera adesione nella macchina del dominio. Augusto Del Noce aveva visto sorprendentemente giusto quando scrisse di temere la miscela tra marxismo, scuola di Francoforte e il surrealismo come una gigantesca molotov messa sotto l’impalcatura borghese. Foucault, come si sa, radicalizzando la critica all’autorità, accenderà altre micce rendendo evidente come la libertà sia la recita sul palcoscenico della storia del disciplinamento capillare che si svolge nel sottopalco.

 

La destrutturazione del lessico politico alla quale assistiamo dalla fine del secolo scorso, porta ad interrogarci sull’autorità perché condividiamo con Kojève, il grande autore che all’autorità ha dedicato già nel ’42 un libro denso per «saggiarne forme e flessibilità», l’idea che essa sia ancora fondamentale per intendere lo Stato, ora che anche lo Stato sembra in lenta dissoluzione.

 

Dell’autorità ci attrae, come nel caso della democrazia, la sua trasformazione. Da un lato l’autorità sempre più concettualmente distaccata dalla sfera pubblica; deistituzionalizzata, depoliticizzata e indebolita nella sublimata categoria morale e culturale. Con un aggravamento nel pulviscolo postmoderno perché alla relativizzazione soggettiva corrisponde la relativizzazione dell’autorità intesa come elemento di tradizione sia politica che culturale. Insisto sull’idea che lo svuotamento della democrazia così come dell’autorità rispecchi lo svuotamento della soggettività sociale. La crisi dell’intellettuale, la crisi dell’autore è un aspetto cruciale della crisi della nozione di autorità. Si sono costruite altre autorità mentre le istituzioni depoliticizzando l’autorità diventano complessivamente più autoritarie, magari dandosi un volto tecnico. Ha scritto Kojève: «Esiste autorità soltanto là dove c’è movimento, cambiamento, azione (reale o almeno possibile): si ha autorità solo su ciò che può “reagire”, cioè cambiare in funzione di ciò o di colui che rappresenta l’autorità (la incarna, la realizza, la esercita), E, in tutta evidenza, l’autorità appartiene a chi opera il cambiamento e non a chi lo subisce.» Prima di Sennett, Kojève aveva indicato la dinamica dell’autorità, aveva puntato sulla flessibilità indotta dall’autorità per sottrarre questa parola chiave alla destra, già nel ’42.

 

Piero Violante è politologo, docente di Storia del pensiero politico e Sociologia della musica all’Università di Palermo

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