Quel giorno era il 12 giugno scorso, di primo pomeriggio, e infuriava la battaglia. Ahmed Al Masri, 21 anni e una discreta barba a incorniciargli il viso, rientra dai suoi con in corpo il furore della gioventù. Si butta in camera e cerca la divisa e l'arma per raggiungere i compagni di Hamas, il movimento religioso fondamentalista. Non vuole mancare l'appuntamento fatidico, il suo battesimo nella lotta. Il padre, Zyad, 43 anni, è steso sul divano e di scendere in strada non ha nessuna voglia: tutti sanno, nel quartiere, che è di Fatah, l'organizzazione laica che fu di Arafat e ora è del presidente Abu Mazen. Zyad dice: "Smettila, non uscire". Ahmed risponde qualcosa che si può tradurre con "fatti gli affari tuoi". Ribellione. Il padre si alza e l'alterco diventa una rissa verbale. "Io vado", "no tu non ti muovi". E bisognerebbe passare alle mani per frenare quell'esuberanza. Adesso Ahmed è pronto e sta prendendo l'uscio. Al padre viene l'idea e in una frazione di secondo passa alla pratica. Prende il suo di fucile (chi non ne ha uno, a Gaza?) e spara a una gamba del figlio. Sono urla ed è sangue. Il padre si butta a soccorrere il figlio gli accarezza i capelli e chiama l'ambulanza e ci sale sopra col suo ragazzo ferito.
Riflette a giorni di distanza Zyad: "Gli ho sparato perché è di Hamas? No. Gli ho sparato perché avevo paura che morisse". Non c'era altro modo di fermarlo? "No, non c'era altro modo". Va ogni giorno accanto al letto, anche se quello non gli parla: "Non importa, mi parlerà".
Anche senza Ahmed, Hamas ha stravinto in tre giorni. Cosa se ne faccia della vittoria è un rebus per il quale gli stessi suoi leader non hanno soluzione. Vanno avanti alla giornata, registrando un isolamento che non è mai stato tanto acuto nemmeno dopo il successo alle elezioni. Israele e l'America erano già nel conto, ma persino l'Egitto ha spostato l'ambasciata da Gaza a Ramallah e la Striscia è un concentrato di anime (un milione e mezzo di persone, la più alta densità abitativa del mondo) senza collegamenti in nessun punto cardinale. Certo il movimento fondamentalista ha sempre badato più a costruire il consenso tra la 'sua' gente come trampolino di lancio per dominare tra i palestinesi. E allora il primo progetto politico dopo il trionfo è fornire al popolo ciò che reclama e che i nuovi padroni sono (relativamente) in grado di dare: la sicurezza.
L'ordine regna a Gaza city perché questa è la consegna per la miriade di uomini in uniforme che controllano, ben armati, ma amichevolmente e a volto scoperto, ogni angolo. Premurosi coi pochi occidentali in circolazione e davvero dispiaciuti per gli inconvenienti. Il primo dei quali accade non appena messo piede nella Striscia, provenendo dal valico di Eretz. Gang di ragazzini, dopo aver razziato anche i tubi del lungo tunnel davanti alla frontiera, si aggirano minacciosi e col coltello che spunta dalla tasca, attorno ai pochi che entrano (giornalisti, operatori umanitari) perché lì, nella no man's land lunga qualche chilometro, non c'è nessuna autorità costituita. "Sorry, ma se arrivassimo, noi di Hamas, troppo vicino agli israeliani, quegli ci eliminerebbero", è la spiegazione. Credibile, certo, ma anche il segno delle difficoltà.
È nel centro del grande agglomerato umano del capoluogo, che si apprezza maggiormente lo sforzo. Traffico caotico, ma non, more solito, caoticissimo. I volontari del braccio sociale del movimento in ogni incrocio regolano la circolazione e sono riconoscibili dalla pettorina gialla fosforescente ("Comprata dall'organizzazione", tengono a sottolineare). Non sono nemmeno universitari, al massimo studenti di scuola superiore, altrimenti sfaccendati, perché l'anno scolastico è terminato.
C'è, in ogni luogo disgraziato, un tour bellico che ha una discreta fortuna finché si conserva la memoria degli eventi memorabili che vi sono succeduti. E Gaza non fa eccezione. L'acme del tour è il Comando delle forze della sicurezza preventiva, già regno di Mohammed Dahlan, l'uomo (Fatah) che piace agli americani e agli inglesi e che non è stato della contesa per via di un problema alle gambe, curiosa simmetria col nostro Ahmed dell'inizio. Si è fatto operare in Germania, ha passato la convalescenza al Cairo e infine si è trasferito a Ramallah da dove ha osservato lo spettacolare crollo del suo sistema di potere. Ogni muro è ricamato da un rosario di pallottole, punteggiato dai colpi duri delle granate Rpg, mentre sul pavimento ancora sono riconoscibili le tracce del sangue che è scorso.
Riassume, in sintesi, la tesi minimalista che Hamas cerca di accreditare per prefigurarsi un futuro: "Non ce l'abbiamo con Fatah, la nostra battaglia l'abbiamo combattuta contro Mohammed Dahlan e i suoi uomini, traditori e collaborazionisti, che avevano costituito nella Striscia un potere mafioso e corrotto. Ora che sono stati spazzati via possiamo riprendere il dialogo per l'unità nazionale". Nel cortile ancora svolazzano documenti evidentemente custoditi in qualche archivio. Avete trovato carte compromettenti? Sorride: "Forse, non so". L'arma dei dossier aleggia, da usare al momento opportuno.
È un fatto che una parte consistente di Fatah non ha combattuto ed è stata a guardare. È quella, forte di 5 mila uomini, che fa capo a Ahmed Helles, ex segretario generale nella Striscia, il quale ora se ne sta in silenzio dentro la sua bella casa d'angolo, grazie allo scudo protettivo di un lutto familiare (morte naturale di una parente). A fuochi spenti, ha convocato una conferenza stampa per condannare blandamente Hamas e si appresterebbe all'improba impresa di ricostruire il suo partito, partendo dalla sua base non coinvolta e dunque integra.
Ma accettare che davvero sia stata una guerra Hamas-Dahlan e stop, significa non tenere conto di altri fattori di segno opposto. Fosse così, perché prendersela con la residenza di Yasser Arafat? I due uomini che stanno di guardia alzano le spalle: "Che la volete vedere a fare? Tanto è vuota". Saccheggiata. Perché devastare la casa di Abu Jihad, martire storico della resistenza palestinese? Perché calpestare, negli uffici presidenziali le fotografie di Abu Mazen e dello stesso Arafat? Perché delegare ai propri soldati il controllo totale, assoluto, di ogni apparato?
Nei 'days after' di Gaza troppe domande e poche certezze. Ché anche la sicurezza promessa galleggia in realtà su un senso generale di inquietudine se nelle strade la gente va di fretta, non c'è nulla della garrula confusione di tempi anche più duri, e verso le cinque della sera, col sole ancora alto, la gente si rintana in casa temendo il peggio.
È allora che appare ancora più spettrale il quartiere del boss Mumtaz Daghmush, area della prigionia di Alan Johnston, giornalista della Bbc. In questa fetta di mondo contano i partiti, ma contano anche i clan con le loro milizie equipaggiate in difesa di traffici illeciti. Ci sono zone off limits, anche adesso, accanto a supermercati dove la gente prende il necessario e scappa. Come da El Kisnawi, dove una bella signora cristiana alza la voce: "Che ne sarà di noi 1.800 che seguiamo la Chiesa greco-ortodossa? Fino a quando mi permetteranno di mostrare il viso e non mi imporranno il velo? Io ho paura. Non avevo le stesse sensazioni quando c'era Fatah e nemmeno quando c'erano gli israeliani". Il proprietario del negozio Naaman Hussein fa l'inventario: "Ho ancora due-tre giorni di autonomia per i generi di prima necessità. Poi scarseggeranno latte, pane, zucchero e riso. Dipende da Olmert. Se non apre il valico commerciale di Karni presto ci sarà una tragedia umanitaria".
Già, dopo la sicurezza c'è il cibo. Non a caso Ayman Taha, uno dei leader di Hamas, dichiara: "Pur di mettere fine all'assedio siamo disposti a trattare con tutti, anche con Israele". Invece di considerarla un'apertura, un dirigente di Fatah, Jamal Zakad, che deve vivere nascosto e premette che è meglio non chiedergli perché, si arrabbia ancora di più: "Ma che cavolo di politica è mai questa? Loro pensano solo al potere e gli basta un'economia di sussistenza. Basta ci siano generi alimentari, acqua, luce e gas e pensano di poter andare avanti così. Non hanno prospettiva, senso della libertà, niente. Staranno così nel loro Hamastan".
Il presidente-tentenne Abu Mazen non ha mai preso decisioni tanto rapidamente. In pochi giorni ha varato un governo d'emergenza, prendendosi anche la responsabilità di forzare la costituzione. "Forse perché", spiega Nemer Hammad, uno dei suoi principali consiglieri, "non l'ho mai visto così infuriato". Tutto poteva sopportare, meno di essere ricordato come il leader durante la guerra civile. Per evitare che fosse più sanguinosa, sostengono in molti, ha preferito non far combattere i suoi. Se è stato colto di sorpresa all'inizio, ha realizzato in breve che quelli di Hamas avrebbero sfogato fino il fondo un odio covato a lungo. Alla Muqata, il quartier generale, si ricorda un episodio evidentemente non sepolto dalla polvere del tempo.
Era il 1994. Arafat era appena rientrato nei Territori. A fine ottobre, un venerdì, andò a pregare in una moschea di Gaza. Entrarono degli estremisti di Hamas che lo presero a male parole e lo avrebbero voluto anche picchiare se non fossero intervenute le sue guardie del corpo che lo misero in salvo così come era, senza scarpe. Da allora a oggi sono passati 13 anni di confronto più o meno serrato nel nome del 'comune interesse del popolo'. Adesso Abu Mazen ha interrotto i rapporti. Lo ha gridato chiaro nella cornetta del telefono a Khaled Meshal, il leader di Hamas in esilio a Damasco: "Non parlo con chi ha le mani lorde di sangue". E non è nemmeno disposto a un dialogo con l'ex premier Haniyeh, secondo lui poco più di un fantoccio manovrato da altri e succube dell'ala estremista. La crisi non era ancora scoppiata quando aveva già chiesto a Meshal: "Perché non riesco mai a concludere nulla con Haniyeh? Dà una parola e non mantiene mai le promesse". E quello, di rimando: "Non parli con Haniyeh, chi può garantire i patti è Khalil el Hayya".
Khalid El Hayya non è in effetti uno qualsiasi. Nel maggio scorso l'aviazione israeliana bombardò la sua casa nel sobborgo di Shajaya a Gaza. Restarono uccisi sette membri della sua famiglia. Lui, ex capogruppo in Parlamento, si salvò. Benché responsabile del dialogo tra le fazioni non aveva esitato a definire Mohamed Dahlan "collaborazionista, traditore e apostata". Quando Abu Mazen aveva ventilato la possibilità di elezioni anticipate lo aveva apostrofato dicendo: "Lei sta lanciando una guerra contro Dio e una contro Hamas". Se è il referente di Meshall nella Striscia, non dovrebbe avere però un'influenza decisiva sulle milizie. A Ramallah credono piuttosto che due ex ministri esclusi dal potere Said Siam (Interni) e Mahmoud Al Zahar (Esteri) siano stati i referenti politici degli insorti, tanto più perché il fratello di quest'ultimo è anche un capo militare. Hamas ha insomma più volti e si ricompatta a posteriori perché così vuole la Shura, il suo consiglio supremo. Fatah a sua volta è un pulviscolo di correnti, riunite nell'ora dell'urgenza, ma pronte a dividersi alla prima occasione.
Non è un mistero che non sia piaciuto, alla generazione di mezzo (cinquantenni) il nuovo governo che a essere benevoli si può definire 'dei saggi', a essere malevoli, una 'gerontocrazia'. Non è un buon segno che al dicastero decisivo degli Interni sia finito un generale di 79 anni, Abdel Razek Yihia, già ufficiale dell'esercito siriano e già ministro. Gli hanno dato la delega per la riunificazione di tutti gli apparati di sicurezza, operazione mai riuscita a nessuno. E che parte anche zoppa per mancanza di mezzi. Lamenta Nemer Hammad: "Sono anni che diciamo a destra e a sinistra che abbiamo bisogno di armi per garantire la sicurezza.Abbiamo coinvolto nelle richieste anche gli italiani. Ne abbiamo parlato non solo con il ministro degli Esteri Massimo D'Alema recentemente, ma anche a Silvio Berlusconi, quando era premier. Berlusconi non può smentire. Prese appunti, ci promise che ne avrebbe parlato col suo amico George Bush e col suo amico Ariel Sharon. Oltre che col suo amico Vladimir Putin. Ma Putin era già convinto, ci aveva già dato il suo parere favorevole. Risultato. Né Bush né Sharon né poi Olmert hanno dato il via libera". Era
stata pubblicata sui giornali israeliani una ventina di giorni fa la notizia per la quale il generale americano Dayton si era dichiarato disposto a riarmare l'Autorità palestinese. Un'ipotesi complottarda vuole che la notizia fosse uscita per danneggiare Fatah, mettere in allarme Hamas e convincerlo a rompere gli indugi e a scatenare la guerra. Dietrologie mediorientali.
Quel che resta, adesso, è una regione completamente cambiata. E i cambiamenti non sono mai senza conseguenze. Come può Israele stare al fianco di una zona dominata da chi vuole la sua distruzione (Hamas)? Se sono fantasiose le ipotesi di invasione della Striscia, è invece pronosticabile un'operazione su vasta scala al confine tra Egitto e Gaza lungo la linea denominata Filadelfia. Là sono scavati i tunnel dove passano le armi e allargare la fascia di controllo almeno a 500 metri (attualmente sono cento) è un'ipotesi al vaglio. Significa, tradotto: spianare centinaia e centinaia di case, produrre altri profughi. Quanto ai palestinesi, il dialogo è congelato. Non potrebbe essere altrimenti dopo i morti. Ma nel tempo medio, c'è da scommetterci, i 'no' diventeranno 'forse' e infine 'sì'. Nessun leader si può permettere di tenere spaccato il suo popolo.