Bilaspur è famosa in lingua hindi come Dhaan Ka Katora, la scodella di riso, e le fertili pianure che si estendono in molti distretti attorno a questa importante città del nuovo Stato indiano di Chhattisgarh sono l’orgoglio di un continente al terzo posto nel mondo tra gli esportatori e i consumatori del prezioso prodotto. Nei suoi 50 slum di catapecchie, gli abitanti mangiano tra i miasmi delle fogne a cielo aperto la porzione sufficiente per sopravvivere. Ma è oltre la sua periferia estrema, nella cittadina di Ganiyari, 20 chilometri a nord, che si cela il lato nascosto di uno Stato presentato dai dépliant turistici come una delle terre più ricche di tradizioni del Continente. Qui c’è l’unica grande clinica dove i contadini e gli adivasi (i tribali) dalle foreste dei remoti distretti lontani anche 200, 300 chilometri, possono permettersi di farsi curare le molte malattie derivate da un unico ceppo sempre più contagioso: la fame. L’ha fondata nel 2000 un gruppo di giovani dottori laureati nella più prestigiosa università medica dell’India (Aiims), rinunciando ai principeschi salari delle strutture private. Tra i letti delle stanze spartane allineati lungo gli stanzoni dell’ospedale giacciono dozzine di pazienti in gran parte giunti qui in condizioni estreme. Le cartelle cliniche di 244 uomini, donne e bambini ricoverati negli ultimi mesi, presentano un sintomo Bhargav, uno dei fondatori dell’ospedale JSS, spiega che la media dei pazienti adulti non supera i 35 chilogrammi di peso, con il caso estremo di un uomo di 19 chili: «Mentre il resto del mondo parla della sindrome di immunodeficenza acquisita col virus dell’Hiv, noi siamo testimoni nel Chhattisgarh di una drammatica sindrome acquisita nutrizionale, che noi chiamiamo N-Aids». Il dottor Bhargav preferirebbe non parlare con la stampa. Uno dei suoi colleghi diventati celebri sulle cronache indiane dell’ultimo anno, Binayak Sen, è ancora in carcere con l’accusa di avere collaborato con i maoisti naxaliti, nonostante una campagna nazionale per proclamare la sua innocenza e una petizione firmata da migliaia di poveri curati col lavoro semi-volontario di Sen e dei suoi colleghi.
Ma di fronte all’evidenza degli uomini-scheletro allineati su lettini, materassi e tappeti del JSS, Bhargav non se la sente di girare attorno al problema che tormenta lui e gli altri medici ben prima della crisi dei prezzi: «È impossibile per degli estranei immaginare ciò che avviene qui, la fame fa più vittime che in Etiopia», sbotta. I pazienti arrivano al JSS su carri tirati da buoi, su autorisciò, dentro pullman stracolmi e su treni dove la gente sale fin sopra i tetti come ai tempi dei viaggi di Gandhi. Qualcuno muore lungo il tragitto, altri subito dopo l’arrivo, altri riescono a riprendersi e tornare nei loro villaggi, dove però la situazione diventa sempre più problematica, soprattutto da quando la vertigine dei costi ha creato anche in India paradossali speculazioni sulle spalle dei più poveri. Per evitare rivolte, e con l’occhio alle prossime elezioni, i governi nazionale e locale implementano programmi per la distribuzione di grano e riso a prezzi bassi. Dopo che il Bjp, il partito degli ultraortodossi hindu, ha annunciato per la festa religiosa del Makar Sankranti riso a 3 rupie al chilogrammo, contro i 15 del mercato, per 340 mila famiglie sotto la soglia della povertà, il progressista Congresso lo ha promesso a 2, sempre che riceva voti sufficienti. Ma il vero problema, che non riguarda solo le quote calmierate, bensì gli stessi coupon, le carte delle razioni per anziani e disoccupati, i pasti gratuiti di mezzogiorno chiamati Anganwadi per i bambini delle scuole dei villaggi, è quello della distribuzione. Spesso gli abitati dove tribali e dalit (la casta più bassa del sistema hindu) si nutrono di radici, foglie, frutta, dei proventi di piccolo artigianato e, se va bene, pollame, sono poche case di fango o bambù sparse in regioni ricoperte da fitte foreste, senza elettricità, acqua potabile e strade degne di questo nome.
Escluse le città che non offrono facile asilo a popolazioni che parlano spesso solo antichi dialetti e sono vissute isolate per secoli, nemmeno la campagna offre un’alternativa valida. Il costo dei semi, dei fertilizzanti, dei pesticidi e dell’elettricità, senza contare i trasporti e la benzina, oltre alle dissennate stagioni dell’effetto serra, hanno reso proibitiva quella che era un tempo la base di sussistenza del 70 per cento della popolazione indiana, a cominciare dai contadini senza terra delle caste basse.
Per sviluppare l’industria e l’alta tecnologia, l’India - e Chhattisgarh non ha fatto eccezione - ha lasciato indietro l’agricoltura. Non solo. La grande varietà di semi di grano e di riso di cui disponeva è stata sostituita da stock in gran parte importati da grandi compagnie multinazionali come la Monsanto, buoni per il cosiddetto cash crop, raccolto monetizzabile, ma spesso sterili dopo un anno di utilizzo e a basso potere proteico. I contadini che avevano un minimo di capitale da spendere si sono indebitati fino al collo, nel Chhattisgarh come in Maharashtra, Madhya e Andra Pradesh, portando in queste regioni il numero dei suicidi per debiti alla impressionante cifra di 17 mila nel solo 2006. Il dato sconvolgente, rilevato dal National Crime Records Bureau del ministero degli Interni, ma a lungo negato da stampa e autorità (tanto che il primo ministro Singh ha offerto ricompense solo ai contadini delle altre regioni), fissa la statistica di Chhattisgarh a ben quattro contadini morti ogni giorno. Un altro record negativo assoluto rispetto al resto dell’India.
A rendere ancor più paradossale la situazione c’è stato l’effetto perverso della liberalizzazione dei mercati, con l’autorizzazione da parte del governo indiano alla vendita di grossi quantitativi di prodotti agricoli che in tempi di crisi come questi avrebbero permesso di salvare milioni di vite. Paesi stranieri come l’Australia continuano ad acquistare sul mercato indiano grano a prezzi incredibilmente bassi, 3 mila rupie contro le 10 mila dello standard internazionale. Ma allo stesso tempo l’India ha acquistato per la prima volta nel 2006 e nel 2007 grandi quantitativi di grano e riso all’estero, contribuendo all’impennata dei prezzi sul mercato globale. Non a caso adesso il prodotto viene accumulato nei magazzini in attesa degli inevitabili rialzi (sono già più che raddoppiati negli ultimi dieci mesi) e non può essere soddisfatta l’enorme richiesta di intere popolazioni senza risorse alimentari. Ad ammettere candidamente al settimanale indiano “Business Standard” che «non esiste un meccanismo statale per limitare l’impennata dei prezzi», è stato pochi giorni fa il segretario generale delle Finanze di Chhattisgarh D. S. Misra: «L’unica cosa che lo Stato può fare è cercare le quantità necessarie al mercato nero».