Agostino Saccà è euforico. La richiesta dei pm della Procura di Roma di archiviare l'inchiesta per corruzione in cui era imputato con il premier Silvio Berlusconi lo ha rimesso in gioco. "Volevano farmi diventare il cancro della Rai", ha spiegato, attaccando i vertici dell'azienda che, invece di difenderlo da "accuse che non avevano consistenza", hanno tentato di licenziarlo, per poi spostarlo dalla Fiction al Commerciale. Un'infamia che Agostino sogna ora di vendicare con gli interessi, tornando in groppa al cavallo di viale Mazzini non come Don Chisciotte, ma da invincibile fedelissimo del Cavaliere. Tremano Fabrizio De Noce, Guido Paglia e i suoi nemici a destra e sinistra, mentre la sua lobby strasversale, come l'ha chiamata il sito Dagospia, si appresta a fare incetta di nomine. Per Saccà, però, riprendersi l'amata poltrona sarà assai difficile. I suoi supporter dimenticano infatti che dal 7 febbraio, avendo compiuto 65 anni, l'ex boss dei serial tv è in pensione. Né ricordano che la Corte dei conti ha aperto un fascicolo sul mancato licenziamento del dirigente.
Lo scorso 20 gennaio Saccà ha fatto ricorso contro l'azienda rea di averlo spedito ai giardinetti. Il 9 febbraio, due giorni dopo il pensionamento, il giudice della sezione del lavoro del tribunale di Roma gli ha risposto picche, considerando "inammissibile" la richiesta di reintegro. "È infondato il rilievo di parte ricorrente in ordine alla natura 'discriminatoria' del licenziamento, adottato per sopraggiunti limiti d'età", chiosa la sentenza. Saccà ha insistito spiegando che un "certo numero di dirigenti" destinati alla pensione ottengono contratti di collaborazione. Tipo Rubens Esposito, ex perno dell'Ufficio giudiziario e suo amico, oggi stipendiato con contratto a termine. Il giudice, logicamente, ha risposto che ogni azienda decide autonomamente quali collaboratori assumere o meno. "Neppure appare sussistere il periculum in mora sotto il profilo del danno patrimoniale, economico, alla immagine e alla professionalità del dottor Saccà", chiude il magistrato, che gli intima di pagare pure 4 mila euro di spese processuali. Non sarà un grosso problema: il direttore da un mesetto percepisce una pensione Inpgi da 250 mila euro l'anno.
Inoltre la richiesta d'archiviazione, non ancora firmata dal gip, non inficia l'impianto accusatorio di Claudio Cappon e dei suoi uomini: il tentato licenziamento dello scorso luglio (la mozione fu bocciata dalla maggioranza del consiglio d'amministrazione) e il 'trasloco' alla direzione commerciale non scattò per le telefonate Saccà-Berlusconi o per quelle legate al procedimento penale. Le fonti utilizzate nel processo interno sono associate al mancato rispetto del codice etico della Rai, firmato da tutti i dirigenti in fase di assunzione. Il sogno di Saccà era infatti quello di mettere in piedi una società di produzione privata, chiamata Pegasus: ma invece di parlarne con la direzione generale della sua azienda, contattò prima pezzi da novanta di Mediaset. La concorrenza. Secondo l'audit interno della Rai i contatti con Fedele Confalonieri, con il direttore delle relazioni istituzionali Mediaset Andrea Ambrogetti e le dichiarazioni ai giudici di Bruno Ermolli, consulente economico del premier, lo provano senza ombra di dubbio.
Non solo: Saccà si sarebbe mosso per influenzare indebitamente le attività e le decisioni del cda, e ha formato alcuni cast "sulla base di sollecitazioni esterne finalizzate a utilità extra aziendali". Comportamento che secondo molti avrebbero giustificato il licenziamento in tronco. Tanto che qualche settimana fa la Corte dei conti, dopo una denuncia dell'associazione Articolo 21, ha aperto un fascicolo convocando Cappon, chiedendo la documentazione sullo stipendio di Saccà, quello dei consiglieri, tutto il materiale dell'audit e i verbali del consiglio di amministrazione di luglio 2008 che salvò Saccà dalla cacciata. Un evento che ha fatto preoccupare, e non poco, qualche consigliere di centrodestra: se il fascicolo si trasformasse in un'indagine, e l'indagine in una condanna, qualcuno potrebbe rischiare di pagare i danni erariali di tasca sua.