Politica
22 novembre, 2010

Oggi lo strappo della Carfagna. Ma sono molti gli ex fedelissimi che hanno rotto con il Cavaliere. Ecco cosa pensano di lui. Da Scognamiglio a Biondi. Da Guzzanti alla Parenti

Berlusconi addio

Oggi è l'addio di Mara Carfagna che pesa e fa polemica. La preferita, la pupilla del Capo che sbatte la porta e lancia accuse. Ma per Silvio Berlusconi la cerimonia dell'addio si è già consumata più volte in passato: con fedelissimi e padri fondatori del suo partito che hanno via via preso le distanze. Ma che fine hanno fatto i berlusconiani della prima ora, i fondatori di Forza Italia nel 1994, i pasdaran della rivoluzione liberale? C'è chi non ne vuole più sapere della politica e si è dato al commercio del gas come l'ex sondaggista Gianni Pilo o fa il diacono come lo psichiatra Alessandro Meluzzi, c'è chi continua a far politica, come Domenico Mennitti e Alfredo Biondi, ma distanti anni luce da Arcore. Ci sono quelli che di Silvio non vogliono proprio più sentir parlare come Luigi Crespi e quelli che ormai per le cronache sono desaparecidos come l'ex magistrato Tiziana Parenti. I testimoni dell'alba del berlusconismo, spesso usciti di scena profondamente delusi, guardano e giudicano da lontano il possibile tramonto del Cavaliere.

Il legale di Fininvest Vittorio Dotti è stato capogruppo di Forza Italia alla Camera nella legislatura d'esordio, ex compagno di Stefania Ariosto, la super teste che accusò di corruzione in atti giudiziari Berlusconi e Previti, dal suo prestigioso studio milanese ricorda la delusione: «Parliamo di berlusconismo perché rispetto alle origini, quell'ismo, è il segnale chiaro di un deterioramento. Berlusconi ora è circondato da persone legate a lui in quanto uomo di potere, in una logica di tacito accordo di scambi personali. Agli albori del progetto, con Forza Italia, non si sapeva come sarebbe andata. Era un movimento che nasceva dalla società civile con l'obiettivo di snellire la burocrazia e di aver maggior libertà. Molte persone con bagagli politici differenti, come me che venivo dal movimento repubblicano, hanno aderito perché condividevano la necessità di un cambiamento per il Paese. Presto le illusioni si sono spente. C'è stato un progressivo degrado, un uso del potere per risolvere problemi personali. L'ho capito dal primo governo Berlusconi: mi è stato subito chiaro che si sarebbero messe in atto solo misure utili ad alcune lobby vicine a lui. Da lì è seguito disincanto e allontanamento, quel progetto prevedeva il mancato rispetto di principi costituzionali a cui non ero disposto a rinunciare».

Carlo Scognamiglio è stato il presidente del Senato dopo la prima vittoria di Berlusconi. Sconfisse per un solo voto un mostro sacro della prima Repubblica come Giovanni Spadolini, fece discutere il suo discorso di insediamento con la mano in tasca. È stato poi ministro della Difesa con D'Alema, trasmigrato a sinistra convinto da Cossiga, oggi è professore di Economia Applicata all'Università Luiss di Roma, ha una sola grande passione, la vela. «Nel 1993 Berlusconi ebbe la sensibilità di comprendere che la maggioranza degli italiani non accettava il progetto della classe dirigente del nostro Paese che consisteva nella formazione di una maggioranza di governo tra la Dc e il Pci. Quel progetto era stato sepolto sotto le macerie del muro di Berlino. Berlusconi ebbe il coraggio e la capacità organizzativa di offrire agli elettori la possibilità di esprimere con il voto la loro contrarietà al vecchio progetto. Ma non ebbe quella di comprendere che sarebbe stato impossibile svolgere contemporaneamente il ruolo di grande imprenditore e quello dello statista. Questa in particolare, ma anche la necessità di portare a compimento l'adesione dell'Italia alla moneta europea e ragioni di politica internazionale (la crisi del Kosovo, che portò all'eliminazione dell'ultimo regime dittatoriale e sanguinario del nostro continente), fu ciò che mi indusse nel 1997 ad aderire al progetto "centrista" dell'Udr di Francesco Cossiga».

Sono rimasti in politica Alfredo Biondi e Domenico Mennitti, i cui destini potrebbero a breve incrociarsi. Biondi, il primo ministro della Giustizia di Silvio Berlusconi, autore del contestatissimo decreto che liberava gli inquisiti di Tangentopoli subito ritirato dopo le proteste dei magistrati (la prima sconfitta di Berlusconi sulla giustizia), allora invitava a "non cercare altrove il liberale che c'è in te", oggi afferma: «Ho aderito a Forza Italia perché volevo allargare il partito liberale, farlo diventare di massa, tradurre il liberalismo in concretezza. Ma dopo un po' di tempo ho visto che il partito era sempre meno liberale, sempre più bicolore (Dc-Psi) e con un capo a cui occorreva dire sempre che era il migliore». Oggi Biondi si dice pronto «a riunire un grande partito liberale, una grande organizzazione che si collochi al centro della mischia». Ha fatto un giro a Bastia Umbra, alla convention di Futuro e Libertà, forse ha trovato dove collocarsi.

A destra è sempre stato Domenico Mennitti, l'attuale sindaco di Brindisi. Ma Mennitti nel '91 lasciò il Msi, quando Fini fu rieletto segretario. Faceva il direttore della rivista "Ideazione" quando Berlusconi lo chiamò. E diventò il primo coordinatore nazionale di Forza Italia, predecessore di Bondi, Scajola e Verdini. Oggi, guardando indietro, sostiene: «Il progetto era valido, tanto da realizzare in pochi mesi un terremoto politico, ma è rimasto un'idea, un' impostazione, non si è mai realizzato concretamente. Di certo l'avvento di Forza Italia ha permesso un'accelerazione del processo evolutivo e di modernizzazione del Msi, così come dei partiti di sinistra, ma il programma e i consensi raccolti non sono stati tradotti in concretezza di governo. I problemi sono stati la mancanza di dialettica, di un dibattito vitale e la staticità dei vertici, rimasti uguali da allora. C'è stata un'incapacità di governare e oggi credo che il meccanismo di Berlusconi si sia definitivamente inceppato».

Anche il giornalista Paolo Guzzanti pensava che il Cavaliere avrebbe portato la rivoluzione liberale in Italia, ma oggi è uno dei suoi più feroci critici: «Quella rivoluzione l'Italia non l'ha mai avuta, meno che mai con Berlusconi. Me ne sono andato quando ho assistito ai suoi comportamenti da imperatore giapponese, quando ho compreso nell'inchiesta Mitrokhin che parteggiava solo per Putin, quando ho capito che stava irridendo la funzione parlamentare. E quando, ben prima del caso Noemi, mi sono accorto della mignottocrazia e del fatto che volesse svuotare la democrazia e riempirla con ragazzette dalle misure giuste, pronte a osannare il capo».

Il padre di tutti i sondaggisti, Gianni Pilo da Macomer, l'uomo che nel '94 con la sua Diakron dava i suoi numeri vincenti di Forza Italia e ha trasformato i sondaggi in un'arma di comunicazione, oggi ha abbandonato exit poll e politica ed è passato al gas. Lo importa dalla Tunisia attraverso la società E. NoI. E non vuole più parlare di politica: «Ormai sono immerso nel privato». Il 25 aprile 1995 Pilo fece riempire ad Emilio Fede l'Italia di bandierine azzurre per le elezioni regionali, ma si sbagliò. Caddero le bandierine e cadde Pilo. Al suo posto arrivò Luigi Crespi, l'inventore "del contratto degli italiani" firmato da Berlusconi alla scrivania di Vespa. Oggi Crespi non vuole ricordare né percentuali, né decimali di quel periodo, ma non a caso in questi giorni non è tutto preso nella costruzione dell'immagine della neo-ribelle Mara Carfagna.

Tiziana Parenti, Titti la Rossa, l'ex magistrato di Mani pulite che indagò sulle tangenti rosse, fu tra i primi ad aderire al progetto di Berlusconi agli albori. Oggi esercita la professione di avvocato a Roma e non ha perso la grinta: «L'idea di Berlusconi era giusta e lui lo ricordo come un uomo molto riservato, la cui vita privata era inaccessibile persino agli amici. Incredibile a dirsi, oggi. Capii subito però che le cose non sarebbero andate bene, non perché sono una veggente, ma perché non avevo alcun interesse a tenere il posto. Non ci voleva molto infatti a capirlo: Forza Italia nasceva commissariata da Finivest. Era nata solo l'idea, non il partito. Nel '97 mi resi conto che non si sarebbe usciti da quel sistema paludato, che non ci sarebbe stati merito, apertura al lavoro, ideali liberali. Non c'era democrazia, era evidente, eppure ad alcuni persone sono serviti 16 anni per comprenderlo. Io lo dissi subito e da allora fui definita pazza. Da allora fui scomunicata, perché scomoda. Chi ha coraggio di rompere in questo Paese viene messo nell'ombra assoluta. Il nostro è un sistema politico fatiscente».

Alessandro Meluzzi nel '94 era uno sconosciuto psichiatra, diventò famoso perché alle elezioni riuscì a battere il giovane segretario del Pds torinese Sergio Chiamparino nel collegio ultra-rosso e operaio di Mirafiori. Di quei tempi ricorda: "Mi sono avvicinato a Forza Italia perché ritenevo quel partito espressione della rivoluzione liberale e democratica, ma quando è nato l'Udr di Francesco Cossiga non ho avuto dubbi sul fatto che sarebbe stato meglio proseguire all'interno di quel movimento. Oggi con gli occhi di "diacono di campagna" mi sento molto lontano dalla politica attiva, l'unica cosa che mi auguro è che il bipolarismo non venga distrutto da inciuci di varie natura".

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