Correranno in migliaia, come alla maratona di New York. In questi giorni studiano gli slogan, stringono le alleanze, preparano i programmi. Una valanga di candidati, leader prestigiosi come Piero Fassino, che dopo 25 anni punta a tornare nella sua Torino, e tanti anonimi Cetto La Qualunque a caccia di fascia tricolore, dal Nord al Sud. Un'amministrazione comunale su sei sarà rinnovata con il voto di primavera, 1.400 sindaci. Una folla di aspiranti suicidi, si potrebbe aggiungere, a voler considerare sondaggi di popolarità, inchieste giornalistiche, indagini della magistratura e i rovesci politici dei colleghi già in carica.
All'inizio degli anni Novanta e in epoca post-Tangentopoli, con la novità dell'elezione diretta, fare il sindaco garantiva popolarità, copertine, forza politica, un sicuro trampolino di lancio verso strabilianti ascese nazionali. "Vogliamo eleggere il sindaco d'Italia", spiegavano i referendari di Mario Segni. Nel centrosinistra fiorivano i rassemblement dei primi cittadini: il partito dei sindaci, con Massimo Cacciari (Venezia), Enzo Bianco (Catania) e il vesuviano Antonio Bassolino, protagonista del Rinascimento napoletano, ancora immacolato, e chi si ricorda di Centocittà fondato da Francesco Rutelli? Così potenti che Massimo D'Alema, non riuscendoli a controllare, li aveva definiti, stizzito, "cacicchi". Nel centrodestra c'era la roccaforte Milano e il civico Giorgio Guazzaloca a Bologna, in attesa di dare l'assalto alle altre città governate dal centrosinistra.
E ora? "Ora molti politici in declino pensano di rifugiarsi in un Comune per rifarsi le ossa, come le riscaldature sulla Riviera ligure di un tempo", avverte il sindaco di Bari Michele Emiliano. "E si sbagliano: governare una città è una battaglia alla baionetta, se non hai coraggio i cittadini se ne accorgono". Da vetrina ambitissima a cimitero delle ambizioni: è successo con Sergio Cofferati a Bologna, accade oggi con Gianni Alemanno a Roma. Il sindaco logora chi lo fa. Complicato perfino trovare i candidati: a Torino, Napoli e Bologna il centrodestra arranca, il centrosinistra si affida alle primarie, in alcuni casi molto contestate, vedi Napoli. E i sindaci già in carica attirano su di sé il malcontento e la delusione. L'ultima classifica annuale del "Sole 24 Ore", che misura l'apprezzamento delle fasce tricolori, è la fotografia di una débâcle: la metà delle giunte comunali da rieleggere tra qualche settimana non ha il consenso del 50 per cento dei suoi governati. E nei 28 capoluoghi che andranno al voto poco più della metà raccoglie la sufficienza. Nella classifica di consenso dei primi cittadini, poi, spiccano il tracollo di Diego Cammarata (Palermo) del Pdl, che raggiunge l'uscente Rosa Russo Iervolino (Napoli) del Pd all'ultimo posto, e le pessime performance di Gianni Alemanno e di Letizia Moratti, in calo di cinque punti e appaiati al 73 posto.
Eppure dovevano essere loro i fiori all'occhiello del centrodestra. Mai il Pdl aveva governato contemporaneamente le principali città, Roma e Milano. E con due big, per di più: la marziale super-manager, ex presidente della Rai e ex ministro dell'Istruzione, e il campione della destra sociale, che nel 2008 aveva sconfitto Francesco Rutelli con oltre 17 punti di distacco nelle borgate più degradate e aveva provato a spacciarsi come un Tremonti con vista sui Fori: la risposta romana alla Lega, con le magliette nere al posto delle camicie verdi. E invece proprio su questa ambizione è affondato il sogno di Alemanno. "Il modello Roma avrebbe dovuto essere per la destra lo specchio in cui guardarsi per non confondersi con i sindaci-sceriffi della Lega, il laboratorio di un altro modo di fare politica. E invece lo specchio si è infranto", ha scritto Flavia Perina sul "Secolo". Lo scandalo della parentopoli post-fascista, il gran premio di Formula Uno dell'Eur bocciato dalla Federazione internazionale di automobilismo, il rinnovamento della giunta concluso con l'ingresso di un ex papa boy in sandali e di un dignitoso pensionato indicato da Cesare Geronzi all'assessorato-chiave del Bilancio e con l'estromissione dalla Cultura di Umberto Croppi che aveva saputo conquistarsi una stima trasversale ma che, parola di sindaco, "non aveva numeri in consiglio comunale".
Merito addio, torna il Cencelli. Il flop di Moratti e di Alemanno si può riassumere così: lei va ad Arcore (l'ultima volta lunedì 24 gennaio) a chiedere indicazioni e dovrà ingoiare un vice-sindaco ingombrante come il leghista Matteo Salvini, lui per rifare la giunta si è chiuso in conclave con Fabrizio Cicchitto e Maurizio Gasparri, perfino Gianfranco Rotondi, già che c'era, ha messo bocca per difendere il vice-sindaco Mauro Cutrufo. Nonostante la pioggia di finanziamenti statali, 1.486 milioni per l'Expo di Milano 2015 nei prossimi anni, 600 milioni per Roma Capitale nel 2010, i due comuni piangono miseria. E hanno qualche problema con la questione morale: l'anno scorso l'arresto di Mirko Pennisi, presidente della Commissione urbanistica, fedelissimo della Moratti, pizzicato sotto palazzo Marino mentre incassava una tangente, fece provare il brivido del remake di Mario Chiesa-Mani pulite. A Roma la new entry nelle cronache giudiziarie per riciclaggio, corruzione e spaccio di droga in festini con prostitute è il broker Francesco Maria Orsi, consigliere comunale, cui Alemanno ha affidato il compito di rappresentare la Capitale all'Expo di Shanghai. Raccontano che lui, tipo creativo, abbia chiesto di poter portare con sé in Cina il mascherone della Bocca della Verità o, in alternativa, il dito del Colosso dei musei capitolini. Inspiegabile, a suo parere, il rifiuto inorridito delle autorità competenti, le stesse che lo avevano già bloccato in un altro progetto da stropicciarsi gli occhi, si fa per dire, la corsa di bighe da organizzare al Circo Massimo.
Anche nel centrosinistra, che ha maggiori tradizioni amministrative, trovare il candidato giusto è diventata un'impresa quasi impossibile. Nel Municipio per eccellenza, a Bologna, il Pd prova a uscire da uno psicodramma che va avanti da quasi tre anni, dalla rinuncia al secondo mandato di Cofferati per fare il papà, alle dimissioni di Flavio Delbono, a ognuno il suo sexgate, fino al malore di Maurizio Cevenini che lo ha costretto al ritiro. Ora tocca a Virginio Merola, 55 anni, che ha fatto la gavetta come presidente del quartiere di Savena (prima di fare l'assessore con Cofferati) e rivendica il suo pedigree di funzionario di partito. Pochi rapporti con i big D'Alema e Veltroni ("Odio quando alle feste dell'Unità sgomitiamo per farci vedere dal leader") e perfetta conoscenza del territorio: "Vorrei un equilibrio tra Renato Zangheri e Renzo Imbeni che salutò la città con queste parole: abbiamo lavorato bene, abbiamo lavorato insieme".
Modello Merola: in apparenza modesto, ma in linea con i sindaci che si salvano dal crollo di consensi. Matteo Renzi a parte, il più amato dai suoi cittadini stando ai sondaggi, superstar nazionale al punto di essere ricevuto con tutti gli onori ad Arcore dal Cavaliere, le prime posizioni sono occupate da gente tosta come il presidente dell'Anci Sergio Chiamparino, l'uomo-chiave della trattativa con la Lega sul federalismo, il sindaco di Salerno "legge e ordine" Vincenzo De Luca che in primavera correrà per il quarto mandato, il collega di Bari Emiliano, il leghista Flavio Tosi a Verona.
Sindaci di città medio-grandi che non disdegnano le lotte di potere (vedi l'attivismo di Tosi nel risiko bancario con la leva di Cariverona), ma che si presentano come alternativi ai colleghi delle metropoli in crisi. "I tempi "panem et circenses" sono finiti", spiega Tosi: "La ricetta della Lega è un'altra: disponibilità verso i cittadini, un rapporto non mediato con la gente, la buona gestione che vale anche a Salerno, dove De Luca governa come un sindaco del Nord in una città che dista 50 chilometri da Napoli". Sindaco-sceriffo? "Quando mi chiamano così, rispondo: lo sceriffo l'ho fatto davvero, ora faccio il sindaco-sindaco", incalza Emiliano, ex magistrato, che di recente ha messo su Facebook le foto dei dipendenti fannulloni. "Io su Facebook passo le nottate, a parlare con i miei cittadini". E i partiti? Sono a "Chi l'ha visto?". "Nel Pd il mio isolamento è totale", chiude Emiliano. Mentre De Luca pensa di correre alla guida di una coalizione civica, senza simboli di partito: "Il Pd al Sud non esiste".
Partiti senza sindaci, costretti a improvvisare una classe dirigente che non c'è, con ex ministri distratti dai sogni di gloria nazionale: per molti suoi ex sostenitori è il virus che ha bruciato Alemanno, che medita di lasciare il Campidoglio in caso di elezioni anticipate. E sindaci senza partiti, nel vuoto della rappresentanza, lasciati soli come Giorgio VI, il personaggio del super-nominato "Il discorso del Re", costretti a restare nelle loro città sotto il bombardamento. Piccoli sindaci, poveri sindaci, che vagano in una politica sempre più deserta.