Ha cambiato partito ben cinque volte in soli nove mesi. Conquistando a buon diritto lo scettro da campione di giravolte politiche. Ma il cambio di squadra sembra essere una costante della sua attività politica. Cominciata nel '91 col Pri, poi Pli, Psi, Mario Segni, Udr, Udc...

Si può cambiare casacca cinque volte in appena nove mesi? Ma soprattutto, passare da un gruppo all’altro tre volte in meno di due settimane? Sembra incredibile, eppure sono i cambi di casacca di cui è reso protagonista il senatore Luigi Compagna. Dall’inizio della legislatura, già il 10 per cento dei parlamentari ha lasciato il partito con cui è stato eletto per approdare ad altri lidi: 96 in tutto, 44 deputati e 52 senatori, secondo il monitoraggio effettuato dall’associazione Openpolis. Non male, visto che nella turbolenta passata legislatura sono stati circa 400.

Ma la maglia rosa spetta proprio a Compagna: eletto con il Pdl, ha aderito al Misto poi è passato a Gal e ha seguito Alfano nel Nuovo centrodestra. Peregrinazioni terminate? Nemmeno per sogno. Dopo appena quattro giorni è infatti tornato a Gal e, trascorsa un’altra settimana, è passato di nuovo con Ncd. «Non sono ondivago, resto sulle mie posizioni e convinzioni» dice il senatore all’Espresso. «Ero tornato con Gal perché potesse mantenere la dimensione di gruppo (10 componenti, ndr) ma non si può restare se ci sono punti di dissenso troppo forti: io ho votato l’ultima fiducia al governo, loro no».
[[ge:rep-locali:espresso:285112992]]
Per capire come sia possibile nel giro di pochi giorni fare e disfare, prendere una decisione all’apparenza irrevocabile e tornare sui propri passi, occorre raccontare il “personaggio” Compagna. Sì, perché questo senatore napoletano di 65 anni, figlio d’arte (il padre Francesco fu deputato e ministro), con la erre arrotata, discusso e controverso ma affabile e colto, sembra aver fatto una costante della propria storia politica delle giravolte e dei cambi di squadra. Per dire: repubblicano come fin da ragazzo (era perfino nel Consiglio nazionale del Pri), a fine 1991 passò col Pli, folgorato dall’allora ministro della Sanità Francesco De Lorenzo. «Sono un liberale da sempre anche se sono stato quasi 25 anni nel Pri. Per me è un ritorno a casa» riuscì a dire. Candidato appena quattro mesi dopo, venne eletto al Senato proprio grazie al ministro, che optò per la Camera.

Da quando è finita la Prima Repubblica, le piroette di Compagna si sono moltiplicate. Nel ’94 è col Patto per l’Italia di Mario Segni, il rassemblement centrista che raggruppava repubblicani, liberaldemocratici, referendari e popolari. Non funziona e resta fuori dal Parlamento. Cerca con altri orfani di rifondare il Pli (Federazione dei liberali, Unione liberale). Sempre senza successo.

Nel ’97 è col Partito socialista di Gianni De Michelis, candidato sindaco a Napoli. Poi si ritira per appoggiare il candidato del Polo, Emiddio Novi. Si parla di un assessorato in caso di vittoria ma Antonio Bassolino trionfa nelle urne e manda all’aria i piani. L’anno dopo, nuovo cambio di casacca: approda all’Udr di Francesco Cossiga, dove incontra Fabrizio Cicchitto, ancora fieramente antiberlusconiano. Sul fin de siècle (siamo al 1999) si cambia ancora: stavolta tocca al Ccd di Pier Ferdinando Casini. La Casa delle libertà vince e, sotto le insegne dell’Udc, nel 2001 Compagna torna al Senato. Una legislatura, una mancata rielezione (il biennio del governo Prodi) e poi di nuovo a Palazzo, nel 2008, direttamente col Pdl, strenuo sostenitore di Silvio Berlusconi. Almeno fino a tre settimane fa.

Ma non di sole piroette si tratta. Nella scorsa legislatura Compagna si è infatti reso protagonista di proposte di legge assai discutibili: il dimezzamento delle pene per il concorso esterno in associazione mafiosa, che avrebbe posto limiti alle intercettazioni e prescritto i reati contestati a Marcello Dell’Utri; il ripristino dell’immunità parlamentare e due emendamenti “salva Ruby” sulla concussione che avrebbe fermato o almeno depotenziato il processo contro Silvio Berlusconi; un emendamento che cancellava il divieto per i magistrati di ricoprire incarichi di vertice se hanno più di 75 anni, che avrebbe consentito di concorrere a primo presidente della Cassazione al giudice Corrado Carnevale, il giudice soprannominato “l’ammazza-sentenze” per i numerosi processi di mafia annullati per vizi formali. Tutte proposte presentate a titolo personale, sempre poi puntualmente ritirate dopo il montare delle polemiche.

Una versione che non fa breccia nel centrosinistra, dove si è diffusa l’idea che Compagna, più che un kamikaze, venga in realtà mandato avanti per “sondare” il terreno sui temi più scottanti.

La verità? Chi può stabilirla. Certo è che l’uomo è fatto così, e non teme di apparire controcorrente anche quando gli umori prevalenti sono altri. Per esempio: durante Tangentopoli gli italiani gridavano “Borrelli, Di Pietro non tornate e indietro” e lui, capogruppo liberale a Palazzo Madama, in Aula attaccava il “manipulitismo”, che “non è affatto garanzia di rivoluzione pacifica”. Il Senato concedeva l’autorizzazione a procedere per Andreotti e lui era l’unico a votare contro perché, affermava ironico, contro il Divo Giulio “non c’è fumus persecutionis ma un incendio”.

Battaglie “contromano” proseguite anche negli ultimi anni: la scarcerazione per motivi umanitari del patron di Parmalat Calisto Tanzi («è provato e malato, ci vogliono misure alternative»), la difesa del governatore abruzzese Ottaviano Del Turco arrestato per tangenti («un teorema basato su falsificazioni e insinuazioni»), Marcello Dell’Utri («si assiste ormai alle più stravaganti incursioni di pentiti di comodo»), il fugace sottosegretario Aldo Brancher (che chiese il legittimo impedimento subito dopo la nomina per non comparire nel processo su Antonveneta in cui era imputato).

E su tutte, la difesa a spada tratta di Cosentino, “l’amico Nicola” che paga “la colpa di essere nato e di essere vissuto a Casal di Principe” ed è “vittima di una spietata ostilità ad personam”. Senza dimenticare, da buon partenopeo, Diego Armando Maradona. Nel 2009 la Guardia di finanza bussò in un centro benessere dove il Pibe de Oro stava facendo una cura dimagrante e gli sequestrò gli orecchini coi brillanti. Ebbene, Compagna presentò un’interrogazione al ministro Giulio Tremonti per lamentarsi dei modi, definendo Maradona un oppresso del fisco, vittima di “un comportamento inutilmente vessatorio e di un eccesso e un’ostentazione di zelo a tratti persecutorio”.

LEGGI ANCHE

L'E COMMUNITY

Entra nella nostra community Whatsapp

L'edicola

Il pugno di Francesco - Cosa c'è nel nuovo numero dell'Espresso