«L'instabilità rende possibile un attacco terroristico eversivo al cuore dello Stato da parte della criminalità organizzata. Che sta aumentando la sua capacità di infiltrazione nella politica», L'allarme di Luca Tescaroli, magistrato della Direzione Antimafia di Roma
«L'instabilità rende più possibile un attacco terroristico eversivo al cuore dello Stato da parte della criminalità organizzata». Luca Tescaroli, sostituto procuratore alla Direzione Distrettuale Antimafia di Roma, già pm nel processo per la strage di Capaci, non si sente «di escludere il rischio» che si possa ripetere quanto accaduto nei primi anni Novanta: le stragi. Perché la mancanza di un potere stabile è un terreno fertile per le mafie che, secondo la recente relazione dei servizi segreti, stanno aumentando la loro capacità di infiltrazione nel mercato, nello Stato e nella politica.
«La maggior pericolosità del crimine organizzato nel nostro Paese è data dal fatto che da 150 anni le strutture mafiose continuano a convivere con lo Stato e le classi dirigenti dovrebbero interrogarsi sul perché sia possibile», denuncia Tescaroli. Una convivenza che arriva al paradosso per cui vi è «un'inversione tra Stato e mafia e la mafia è considerata più affidabile dello Stato».
Lei ha indagato sulla stragismo del '92-'93. Ci possono essere delle analogie tra allora e oggi? «Lo stragismo di allora si è perpetuato in un periodo di instabilità, in cui la classe politica stava per essere falcidiata. L'instabilità rende più possibile un attacco terroristico eversivo al cuore dello Stato da parte della criminalità organizzata. La mancanza di un potere stabile crea infatti i presupposti perché la mafia agisca per il proprio tornaconto e cerchi di favorire le proprie posizioni. Oggi non mi sento di escludere il rischio, vi è un terreno fertile per la criminalità mafiosa. E di certo siamo lontani da pensare che la piaga sia terminata. La maggior pericolosità del crimine organizzato nel nostro Paese è data dal fatto che gli esponenti delle associazioni mafiose abbiano rapporti con esponenti delle istituzioni, del mondo politico, imprenditoriale e finanziario. Questo anello di congiunzione rappresenta il momento più pericoloso. E consente di capire come da 150 anni le strutture mafiose continuino a convivere con lo Stato. Le classi dirigenti del Paese dovrebbero interrogarsi sul perché sia possibile questa convivenza. Lo Stato dispone di uomini e mezzi superiori ai mafiosi eppure tutto continua. Evidentemente la linea di demarcazione tra Stato e struttura mafiosa non è così netta. E' necessaria una purificazione delle persone contigue o in contatto con il sistema mafioso. Non è accettabile che esistano partiti politici i cui soggetti hanno rapporti con mafiosi, proprio perché la classe politica deve dare l'esempio».
Se la linea di demarcazione non è così netta, come le sembra possibile che a Roma, nel cuore del potere, non esista una sentenza per mafia? «La sussistenza di associazioni mafiose a Roma deve essere oggetto di investigazione. Con uno spirito laico. Nel territorio romano ci sono stati fatti mafiosi, basti ricordare i due attentati di San Giovanni in Laterano e San Giorgio in Velabro del 1993, e a Roma doveva essere eseguita l'uccisione di Giovanni Falcone. La capitale è terra di conquista di poliedriche forme di criminalità e collettore di risorse illecite, a partire dagli appalti, soprattutto in questo periodo di crisi. Bisogna attuare una strategia investigativa su un doppio binario, individuando sempre i beni inseriti nell'ambito della criminalità».
Per farlo, dal punto di vista normativo, c'è il recente Codice Antimafia sventolato come un'arma di lotta alla criminalità organizzata. Pensa sia efficace? «E' uno strumento nato sul sangue di molti. Per la sua approvazione non è stata sufficiente la morte di Pio la Torre il 30 aprile 1982, la strage della circonvallazione di Palermo, l'omicidio del generale Carlo Alberto dalla Chiesa e la scia di sangue che ne seguì. Ma è uno strumento che va migliorato. E' un punto di partenza, ancora non completo. E' un sottosistema».
Un 'sottosistema' che si ispira alle norme per le procedure fallimentari. Funziona per aggredire la mafia nei suoi interessi principali, cioè quelli economici? «E' paradossale quel che accade. Il mafioso è garante di un equilibrio economico. E' una garanzia per le banche che concedono il credito, per il fornitore che è certo di essere pagato e, nel momento in cui le aziende sono sequestrate, la garanzia viene meno. C'è un'inversione tra Stato e mafia e la mafia paradossalmente è considerata più affidabile dello Stato. A San Cipriano d'Aversa, ad esempio, un immobile era locato alla Marina Statunitense. Quando il contratto è scaduto non lo hanno rinnovato perché il nuovo interlocutore non era in grado di garantire la manutenzione ordinaria, insomma nemmeno il cambio delle lampadine. La mafia è arrivata ad essere considerata un interlocutore valido addirittura da una struttura statuale straniera».
Che cosa bisogna fare allora per far sì che il cittadino comprenda che lo Stato è più affidabile? «Innanzitutto bisogna ripensare il ruolo dell'Agenzia nazionale per i beni sequestri. Per come è stata concepita non è in grado di far fronte alla situazione. Ad oggi è solo un centro burocratico, mentre dovrebbe essere trasformata in una holding propulsiva. Dovrebbe essere un punto di incontro tra domanda e offerta, assicurando una gestione consortile delle aziende sequestrate, dando loro un sostegno reciproco. Ci vuole una visione globale dei sequestri del Paese. Con un'organizzazione imprenditoriale di tutte le aziende, i beni si valorizzano. E poi è necessario un controllo investigativo sui clienti di queste aziende. La criminalità organizzata tenta infatti spesso di distoglierli dall'avere rapporti con le imprese confiscate e cerca di sviarli verso altre imprese che controlla. E ancora, bisogna impedire che le banche ritirino il credito a queste imprese. Lo ritirano perché non hanno più un interlocutore che ritengono affidabile perché ha disponibilità economiche. Sarebbe invece opportuno stipulare convenzioni con le banche virtuose, così che il credito possa essere concesso».
In molte occasioni proprio le banche sono state quanto meno contigue alle attività illecite perpetrate dalle aziende sequestrate. Eppure per colpire il cuore del sistema mafiose potrebbero segnalare alcune operazioni sospette? «Pecunia non olet. Guardano a chi è un buon pagatore e non gli interessa se è un mafioso. Non ci sono molte segnalazioni da parte delle banche, anche se sarebbe auspicabile una maggior sensibilità da parte degli istituti di credito. La holding criminale della mafia, con un fatturato di 140 miliardi di euro, è purtroppo la prima economia di questo Paese. La criminalità organizzata continua a condizionare il sistema economico dell'Italia con denaro a costo zero e strumenti di coercizione basati sulla violenza, effettuando una concorrenza sleale. La priorità deve essere quella di colpire la criminalità organizzata con azioni concrete».