I renziani accusano: l'ex segretario continua a bloccare il partito usando i suoi uomini negli organismi eletti nel 2009. Confermate le primarie l'8 dicembre, ma non si sa se sceglieranno solo il segretario o anche il candidato premier. I sondaggi: Matteo stravince, Civati a sorpresa secondo. Ma i lettiani pensano di candidare uno dei loro

«Pier Luigi non riesce a rimettere nell'armadio il vestito da primo ministro». È un ex bersaniano a descrivere in maniera efficace una parte di quanto sta accadendo nel Partito Democratico. L'ex segretario, anche se appare poco, continuerebbe insomma a contare molto: o almeno a provarci. E continua a influenzare le scelte (o non scelte) del partito, grazie agli attuali organismi dirigenti, che derivano dalle primarie del 2009: insomma, sono ancora in buona parte legate a lui.

Dopo il flop dell'Assemblea Nazionale di venerdì e sabato, il problema è sotto gli occhi di tutti: una parte della vecchia maggioranza, che ha guidato il Pd dal 2009 fino alla sconfitta elettorale, sta 'pesando' troppo. Facendo di tutto per evitare che il partito volti definitivamente pagina. 

«C'è qualcuno nel partito», dice ad esempio Ivan Scalfarotto, renziano, «che vuole impedire a Matteo di vincere pienamente il congresso. Cercano di trasformare una vittoria annunciata in una vittoria mutilata, mettendogli il bastone tra le ruote per quanto riguarda i congressi regionali, oppure cercando di far saltare il congresso».

In molti sono convinti che sabato sia avvenuto proprio questo: il tentativo deliberato di non far tenere il congresso nel 2013. A dirlo chiaramente è, tra gli altri, Matteo Orfini, leader dei 'giovani turchi' e ora sostenitore convinto di Gianni Cuperlo: «Qualcuno ha lavorato per far mancare il numero legale, perché si vuole evitare di far disputare il congresso».

Sempre quel «qualcuno», perché nessuno osa pronunciarne il nome, ma il dito è chiaramente puntato nei confronti di Bersani e dei suoi fedelissimi. Se il congresso saltasse, e magari prima si andasse al voto, le liste elettorali sarebbero composte anche dai dirigenti locali di provata fede "bersaniana", è il ragionamento. Ecco perché l'ex segretario darebbe così.

Proprio Bersani, martedì mattina, dalle pagine dell'Unità ha respinto con forza queste accuse. Tuttavia, proprio al termine della riunione del parlamentino democratico erano i suoi parlamentari di riferimento, insieme a quelli di Giuseppe Fioroni, a dire più o meno apertamente che - senza accordo - e con le regole del vecchio statuto ancora valide, sarebbe stato impossibile portare a termine l'iter congressuale entro la data scelta in assemblea. «Il 2 nel 10 non ci sta, non c'è nulla da fare» sosteneva un fedelissimo di Bersani nel foyer dell'auditorium della conciliazione. Come dire: «Non si fa in tempo, sorry».

La palla ora passa alla direzione di venerdì che dovrà stabilire le varie tappe del congresso. Congressi di circolo, comunali, provinciali, le rispettive convenzioni. Non una passeggiata. Ma ormai la data dell'otto dicembre sembra al riparo. Il segretario Guglielmo Epifani ha capito che, dopo la brutta figura dell'assemblea, il Pd non può permettersi di non rispettare quella data che lui stesso ha annunciato dal palco. 

Ettore Rosato, parlamentare di spicco di Area Dem, l'area di riferimento del ministro Dario Franceschini, sgombra il campo: «Su tutto ci può esser un dubbio, ma l'otto ci devono essere le primarie. Lavoriamo per fare delle regole condivise, per trovare le modalità per scriverle insieme». Per Rosato non è in dubbio, oggi, il sostegno al governo: «Bisogna che tutti i candidati siano a sostegno dell'esecutivo. Lo abbiamo voluto tutti, c'era una situazione di crisi che ad oggi non è cambiata». 

Poi si sa che, oltre la data, un altro problema che sta mettendo in difficoltà il Pd riguarda la coincidenza tra la figura del segretario e del candidato alla presidenza del consiglio. L'elezione di Renzi a segretario lo incoronerebbe anche candidato premier, sfiduciando di fatto Enrico Letta.

Dice Marco Meloni, parlamentare molto vicino a Letta: «Vorremmo essere certi che la fretta di avere una data per il congresso sia effettivamente determinata dalla volontà di rendere più efficiente il Pd e non si sia alla ricerca di una data utile per tentare di arrivare alle elezioni in primavera».

Anche sull'assemblea nazionale Meloni ha un punto di vista diverso rispetto a quello dei renziani: «Loro hanno rifiutato di approvare una modifica (quella che fa coincidere il segretario con il candidato premier) a cui si era arrivati insieme. Ora le mancate modifiche allo statuto porterebbero a tempi più lunghi, ma per noi non ci sono problemi. Date e formalismi sono molto meno importanti della sostanza: chi ha considerato la data del congresso una questione di vita o di morte sta l'onere della prova, deve dimostrare di non voler usare le istituzioni del paese per interessi di bottega».

La paura dei lettiani è che si riproponga la dinamica che portò a cadere il governo Prodi, dopo l'elezione di Veltroni alla segreteria del Pd nel 2007: «Le istituzioni non sono a disposizione di nessuno. Andare a votare in primavera sarebbe un disastro per il paese e il più grande regalo alla destra e a Berlusconi. La stabilità è fondamentale». (ancora Meloni).

Aggiunge infine il lettiano: «C'è una domanda politica che non viene raccolta da nessuna delle due candidature principali». Si riferisce ovviamente a Renzi e Cuperlo e preannuncia così l'ipotesi di una candidatura gradita ai parlamentari «storicamente vicini ad Enrico Letta».

Al momento le candidature alla segreteria del Pd sono in verità quattro: oltre a Renzi e Cuperlo, sono in gara Pippo Civati e Gianni Pittella. E non è detto che le sue «candidature principali» di cui parla Meloni siano le prime in due in termini di consensi: secondo un sondaggio Epoké del 19 settembre scorso, Renzi sarebbe oltre il 51 per cento ma al secondo posto si piazzerebbe Civati con il 20,2, seguito da Cuperlo con il 13,2. Il margine di possibile errore dichiarato è però del 4 per cento.

Quel che è certo è che il 2013 sarà ricordato come l'anno "horribilis" del Pd: la sconfitta alle elezioni politiche, le dimissioni di Bersani, i tormenti per l'elezione del Presidente della Repubblica, il tradimento dei 101, il flop dell'Assemblea Nazionale. Il rischio implosione esiste, ma rimanere fermi, restare immobili, è l'unica cosa che i democratici non possono permettersi.