Il 2013, che sarebbe dovuto essere l’anno del nuovo corso per testare il dialogo tra Stato e cittadini, si è rivelato un flop. E la trasparenza resta una chimera

Soffochiamo di burocrazia, le leggi pensate per alleggerirla restano inattuate e, per provare a uscirne, non c’è altro che introdurre nuovi appesantimenti burocratici. E’ questo, in sostanza, il quadretto desolante e a tratti schizofrenico della Pubblica amministrazione, consegnato dal neoministro Marianna Madia nella sua relazione al Parlamento, datata 31 marzo ma pubblicata sul sito della Camera solo in questi giorni.

Un’analisi severa, in cui si parla di amministrazioni dello Stato che restano poco trasparenti per un “certo grado di impermeabilità” al cambiamento, e dell’urgenza di combattere “le resistenze incontrate”. La Ministra, senza giri di parole, ha messo nero su bianco quanto poco siano state attuate le disposizioni che avrebbero dovuto rendere più semplici e leggere le trafile per ottenere autorizzazioni, concessioni o benefici.

Di che si parla? Una delle ultime leggi dell’epoca Berlusconi (il cosiddetto “Statuto delle imprese”) aveva stabilito che ogni atto sfornato dallo Stato contenente nuovi adempimenti o oneri avrebbe dovuto essere adeguatamente comunicato ai cittadini via Internet e pubblicato sulla Gazzetta. L’obiettivo era, in realtà, ancora più ambizioso: ridurre il giro di carte necessarie per il riconoscimento dei diritti. Un vero toccasana per rilanciare la libertà d’impresa, si disse nel 2011 quando la legge fu approvata.

Macché. Si è trattato di un obbligo tanto ignorato che, dei 25 nuovi “adempimenti” emessi dai vari Ministeri, “solo tre sono stati pubblicati sui siti web delle amministrazioni competenti e uno anche in Gazzetta”. Per di più, esistono ben undici atti sui quali non sono arrivati dagli uffici i chiarimenti chiesti dal Ministro: di conseguenza, scrive la Madia, “non è stato possibile stabilire” se i nuovi oneri fossero già esistenti o no. Resta che, al netto del paradosso per cui una legge dello Stato prevede che lo Stato chieda allo Stato se un onere esista o no, le risposte di cortesia sono state uguali a zero. Insomma, il 2013, che sarebbe dovuto essere l’anno del nuovo corso per testare il dialogo trasparente tra Stato e cittadini, si è rivelato un flop.
 
E dire che, senza badare a spese, la Funzione Pubblica aveva fatto le cose in grande per far avviare la macchina della trasparenza, attivando un servizio di help-desk per amministratori in panne e una pagina web con tutte le informazioni necessarie. In fondo, si trattava di aggiungere una piccola sezione al sito di ogni Ministero, laddove si parla di trasparenza. Invece, si legge con una certa laconica amarezza, “questa sezione, nella maggior parte dei casi, risulta vuota o in corso di aggiornamento”. 
 
Il ministro Madia, nella relazione alle Camere, azzarda anche una possibile spiegazione: “La disposizione sembrerebbe essere percepita, dalla maggioranza delle amministrazioni, come un inutile appesantimento procedurale”.  Il che raddoppia l’effetto kafkiano: la trasparenza non farebbe rima con semplificazione, anche se proveniente da una legge che voleva trovare “strumenti idonei a prevenire l’introduzione di nuove complicazioni”.
 
E qui arriviamo alla soluzione escogitata, cioè al prossimo groviglio. Come sbrogliare la matassa di burocrazia se non inventandosi qualche passaggio in più? Puntualmente, infatti, il Ministero scorge un possibile correttivo al buco nell’acqua postulando l’emanazione di un nuovo “atto di indirizzo” e prevedendo che (tanto per non lesinare in passaggi amministrativi) i risultati del monitoraggio vengano inviati anche alle associazioni delle imprese e dei consumatori.

E se questo non dovesse bastare bisognerà metter mano pure alla legge, inserendo altre amministrazioni da obbligare a esser trasparenti, si fa l’esempio di Agenzia delle Entrate, Agenzia delle Dogna e Inps. Magari con la speranza che aggiungendo nuovi coperti il totale sia meno salato.