Il 24 settembre si replicherà a Palermo con i grillini: in cartellone c’è l’incontro nazionale del Movimento 5 Stelle. Anche in questo caso assalto di militanti in grande stile: nel 2012 Beppe Grillo si fece lo stretto a nuoto, ora il suo blog propone ai partecipanti un pacchetto low cost con lo sconto del 15 per cento sugli aerei Alitalia e sui traghetti Tirrenia, come si conviene a un partito che governa le grandi città e che punta a conquistare la sua prima regione. La Sicilia, naturalmente.
I due principali partiti fanno festa in Trinacria. Mai successo nella storia repubblicana. In 71 anni la festa dell’Unità è scesa così a Sud solo nel 1976, quando il Pci di Enrico Berlinguer organizzò una storica edizione a Napoli. Per ritrovare una grande manifestazione di questo genere bisogna tornare alla festa dell’Amicizia della Dc, nel 1987 a Palermo, segretario era Ciriaco De Mita. Non fu un’occasione fortunata: è rimasta nelle cronache perché a lungo la procura palermitana cercò di dimostrare che in quei giorni avvenne l’incontro del bacio tra Giulio Andreotti e Totò Riina, approfittando della presenza sull’isola del ministro.
Nel 2017 si vota in Sicilia: per la regione e per il comune di Palermo. La prova generale delle elezioni politiche dell’anno dopo, se la legislatura arriverà a scadenza naturale, nel 2018. Ma l’operazione Husky di Pd e M5S, settant’anni dopo la concessione dell’autonomia regionale alla Sicilia che è a oggi il frutto più duraturo dello sbarco anglo-americano, non è solo l’anticipo della campagna elettorale siciliana, è la spia di uno sconvolgimento che costringe a rivedere mappe e cartine tradizionali.
Per settant’anni ogni professionista della politica, aspirante leader o analista, doveva come prima cosa imparare a memoria un dogma, come le tabelline delle elementari: le elezioni si vincono o si perdono al Nord. Il Sud, come l’intendenza napoleonica, segue, è filo-governativo, per vocazione o per interesse. Così è stato per il 61 collegi a zero della Sicilia in massa berlusconiana nel 2001. E ancor più per i due grandi referendum della storia nazionale. Nel 1946 le regioni del Sud votarono per la monarchia contro la Repubblica. Nel 1974 per Amintore Fanfani contro il divorzio (con l’eccezione della Sicilia, in cui gli anti-divorzisti raggiunsero comunque il 49,5 per cento). Il cambiamento arrivava dal vento del Nord, la conservazione dal Sud.
Nel 2016 la regola potrebbe essere confermata, nel referendum sulla riforma costituzionale di autunno le regioni del Sud potrebbero guidare il fronte del No, e dunque votare per conservare l’attuale Costituzione, ma il segno politico sarebbe l’opposto. Non il mantenimento dello status quo ma un voto contro, il no al governo di Matteo Renzi, la rivolta. Sarà qui, al Sud, che la battaglia sarà combattuta colpo su colpo, come nell’Opera dei Pupi se le daranno di santa ragione.
E dire che i dati dell’economia, per la prima volta da decenni, offrono qualche segnale di ripresa. L’istituto Svimez, che un anno fa aveva lanciato l’allarme sul «sottosviluppo permanente» del Meridione (desertificazione industriale, crollo demografico, rischio povertà), nel rapporto dell’estate 2016 cambia verso rispetto alle sue previsioni, «il 2015 è stato un anno eccezionale» perché la crescita del Pil nelle regioni meridionali ha battuto quella del Nord, uno per cento contro 0,7, sono risaliti consumi e investimenti e ci sono stati 94mila occupati in più.
«Core ‘ngrato», penserà dentro di sé il premier Renzi, perché a questi risultati non corrisponde un aumento di consenso per il governo, anzi. Dalla Puglia alla Campania alla Basilicata il Sud è una mappa di ribellioni, comitati, i No-Triv, i No-Ilva, i No-Tap, professori che non vogliono accettare il trasferimento nelle regioni del Nord. E sindaci, presidenti di regione, eletti a cariche istituzionali, che si mettono a capeggiare il dissenso. Contro il Pd, fuori dal Pd, ma anche dentro.
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Luigi de Magistris, appena rieletto sindaco di Napoli, da mesi si propone come leader del fronte del No, non solo referendario. Raggiunto l’obiettivo del comune «de-renzizzato», a cavallo di ferragosto ha spedito a Palazzo Chigi qualche messaggio di dialogo, a patto che Renzi tolga di mezzo il commissario governativo di Bagnoli Salvo Nastasi. E ha ricominciato a parlare con il presidente campano Vincenzo De Luca, l’unico esponente del Pd meridionale ad avere la piena fiducia del premier, il vicerè in terra di Campania, il solo a non tradire mai sul piano elettorale (a Salerno il suo candidato Vincenzo Napoli ha vinto al primo turno con il 70 per cento, una rarità), in ballo c’è la gestione dei fondi per le Universiadi 2019. Stringere la mano a De Magistris e eliminare Nastasi è un prezzo altissimo per Renzi, ma in cambio il sindaco potrebbe promettere un atteggiamento più moderato quando comincerà la campagna referendaria. Votare No, ma senza porsi alla guida (nazionale) del fronte anti-riforma.
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In Puglia le prove di intesa sono già in corso da qualche settimana. Lo scontro tra Renzi e il governatore Michele Emiliano, che è anche il leader del Pd regionale dopo esserne stato segretario, un doppio incarico modello Renzi, aveva sfiorato il punto di non ritorno nei giorni del referendum sulle trivelle, fortemente voluto dal presidente della Puglia. A quorum mancato Renzi andò in tv ad attaccare frontalmente i presidenti di regione «che hanno cavalcato il referendum per una conta interna al Pd. La demagogia non paga».
Dopo molti mesi di assoluta incomunicabilità («Matteo non mi risponde al telefono, io devo portare pazienza, sono più vecchio, lui è un ragazzo...», raccontava agli amici l’ex magistrato), Renzi e Emiliano sono tornati a parlarsi. Tregua obbligata per via dei rispettivi incarichi istituzionali, ma fragilissima, come si è visto dopo l’ultimo vertice sull’Ilva di Taranto, in cui Emiliano ha minacciato di fare ricorso alla Corte costituzionale per conflitto di attribuzione con lo Stato. Sul referendum il governatore si rifugia nella richiesta di cambiamento dell’Italicum e difende la libertà di espressione nel Pd per i sostenitori del No. Un’altra spina nel fianco di Renzi.

De Magistris e Emiliano sono leader che raccolgono un consenso personale e provano a spenderlo sul piano nazionale. Ma devono fare i conti con il soggetto politico che si è già dimostrato in grado di intercettare il voto dell’elettorato: M5S, sempre più a trazione meridionale. Il movimento fondato dal milanese Gian Roberto Casaleggio e dal genovese Beppe Grillo è pilotato da una sorta di corrente del Golfo, quattro componenti su cinque del direttorio sono campani, su tutti spicca Luigi Di Maio nato ad Avellino ma di Pomigliano D’Arco, il candidato premier in pectore.
Già nelle elezioni 2013 (ormai lontane) M5S aveva raggiunto le percentuali più alte al Sud e in Sicilia: nelle prime dieci province, sei siciliane. Oggi il meridione è il granaio dei voti del Movimento cavalca ogni protesta e accende ogni polveriera con una presenza capillare che ha ucciso sul nascere la velleità di Matteo Salvini di trasformare la Lega Nord in Lega Italia. M5S è una lega sud, molto più attrezzata a intercettare e rilanciare il voto anti-governativo, senza l’impaccio dell’identità lepenista o il ricordo della Padania.
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In Sicilia i sondaggi danno largamente in testa per le regionali dell’anno prossimo, con il leader regionale Giancarlo Cancellieri, ma avanza una candidatura al femminile, modello Raggi-Appendino, la deputata regionale Valentina Zafarana. Uno scenario che ricorda per il Pd il disastro di Roma: c’è un governatore uscente, Rosario Crocetta, sempre più incontrollabile, prima delle vacanze ha infiammato una seduta della commissione Antimafia presieduta da Rosy Bindi con uno show personale. E per la successione si affollano nel Pd i possibili candidati: il sottosegretario all’Istruzione Davide Faraone, che da tempo gira in lungo e in largo l’isola, il sindaco di Catania Bianco, il padrone di casa della festa dell’Unità, in caso di vittoria del sì al referendum punta anche a essere il primo presidente del nuovo Senato delle regioni, ma prima dovrebbe essere eletto deputato regionale in Sicilia o farsi confermare sindaco.
E gli outisider: l’europarlamentare Michela Giuffrida, l’ex rettore dell’università di Palermo Roberto Lagalla, oggi nel Cnr, un nome in grado di raccogliere consensi trasversali. Nell’isola del ministro dell’Interno Angelino Alfano il centro-destra è un campo di Agramante. Il ritorno in Forza Italia di Renato Schifani anticipa in Sicilia nuove fratture e scissioni e anche questa, in fondo, è una novità: alle poltrone, ai posti di governo e di sottogoverno, non corrispondono più i voti, altrimenti l’Ncd di Alfano sarebbe un partito di massa. Per ora, fino al referendum, l’Ncd siciliano (che equivale a quasi tutto il partito nazionale) resterà con il Pd, poi si vedrà.
Prima per Renzi c’è il referendum. Per vincere dovrà ridiscendere la via Appia, come Paolo Rumiz nel libro pubblicato da Feltrinelli, «via femmina» tra «tangenziali, parcheggi, supermercati, campi da arare, cave, acciaierie». E poi andare ancora più a Sud, passare più volte lo stretto, la festa di Catania potrebbe non bastare dove i comitati del sì sono già più di trecento, ma chissà quanti voti spostano. Perché se invece il Meridione dovesse votare per il no, arriverebbero le dimissioni di Renzi e la nascita di un governo istituzionale. A quel punto il presidente della Repubblica Sergio Mattarella potrebbe affidare l’incarico al presidente del Senato Pietro Grasso. Due siciliani al Quirinale e a Palazzo Chigi. Lo stivale capovolto: benvenuti al Sud.